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Intervista di Valerio Corzani a Luigi Ceccarelli

Rete2 della Radio Svizzera di Lugano www.rtsi.ch/Rete2 - 2008
audio - 1a puntata
audio - 2a puntata


Testi

intervista di Oliviero Ponte di Pino a Luigi Ceccarelli
Pubblicato sulla rivista internet "a Teatro" Settembre 2001

In Die Resurrectionis
Conversazione di Franco Masotti con Luigi Ceccarelli
Pubblicato sul catalogo generale del Ravenna Festival 2000

Intervista di Susanna Persichilli a Luigi Ceccarelli
pubblicato sul n. 39 (Gennaio/febbraio 2001) della rivista "I Fiati"



intervista di Oliviero Ponte di Pino a Luigi Ceccarelli
Pubblicato sulla rivista internet "a Teatro" Settembre 2001


1- Perché ti sei avvicinato al teatro? Il teatro musicale era già un filone di lavoro che perseguivi nell'ambito della tua ricerca musicale? (scusa l'ignoranza).

In realtà sono sempre stato un musicista molto vicino al teatro e alle arti visive. E non solo perché ho collaborato con artisti delle più varie discipline, ma soprattutto perché, al di là della conoscenza di una tecnica specifica, credo che l'operato di ogni artista sia in rapporto con tutta la cultura e non soltanto con il proprio linguaggio. Quando penso alle opere che più hanno influenzato il mio lavoro mi vengono in mente, oltre che musicisti, nomi di pittori, registi, architetti o scrittori.

Fin dall'inizio della mia formazione musicale, quando ero ancora uno studente al Conservatorio di Pesaro, il mio interesse per le arti visive è stato molto forte. Verso la metà degli anni '70 ho lavorato insieme ad un gruppo di studenti dell'Accademia di Belle Arti di Urbino per la progettazione di un'installazione che coinvolgesse l'intero palazzo del Conservatorio. Si trattava di un percorso sonoro e visivo che trasformava quell'austero ambiente accademico in un luogo di incontri stravaganti: rumori concreti di ambienti, rumori di oggetti e frammenti di varie conversazioni erano liberamente associati a oggetti e ambienti dell'arte povera.
Pochi anni dopo, il mio professore di Musica Elettronica, Walter Branchi, mi fece conoscere il pittore Achille Perilli e gli artisti che lavoravano con lui in "ALTRO, gruppo di lavoro intercodice" Si trattava di un gruppo formato da artisti provenienti da varie discipline (pittori, fotografi, grafici, architetti, danzatori) che realizzava spettacoli partendo dall'idea di una relazione paritaria tra tutti i linguaggi artistici. Con loro ho lavorato dal '77 all' '80 nella creazione di "Abominable A", una performance teatrale nella quale tutta la parte sonora, da me realizzata, era costituita unicamente da parole che iniziavano per "A", lette in sequenza da vocabolari di varie lingue e modificate elettronicamente.
In seguito il gruppo si è trasformato in "ALTRO teatro", la compagnia di danza diretta da Lucia Latour e con Lucia abbiamo continuato a realizzare spettacoli di danza e musica fino alla metà degli anni novanta. Il nostro metodo di lavoro era molto influenzato dal lavoro intercodice, e anche in questo caso la progettazione degli spettacoli era fatta con criteri di lavoro di equipe. Oltre alla musica ho realizzato al computer complesse multivisioni che servivano da scenografia. Tra tutti vorrei ricordare "Anihccam" spettacolo ispirato a Fortunato Depero, che all'inizio degli anni '90 ha avuto grande successo in Italia e in Europa.

Il mio avvicinamento al teatro di parola, invece, è iniziato di recente ed è stato un percorso a tappe, nato in modo per me del tutto imprevedibile partendo dalla radio.
Nel 1994 Radio Tre aveva commissionato a venti musicisti italiani altrettanti "Radiofilm". Con questo termine, inventato da Luca Francesconi, si proponeva ai compositori di realizzare un'opera musicale partendo da una storia e utilizzando il linguaggio del cinema e le tecnologie elettroniche ad esso connesse, ma, ovviamente, in assenza di immagine. Due erano le novità rilevanti rispetto al tipo di commissione che viene di solito fatta ad un musicista: l'obbligo di utilizzare le tecniche digitali nella composizione non solo come ausilio tecnico ma come elemento creativo, e la richiesta che il testo e la trama del racconto risultassero assolutamente comprensibili, a differenza di quel che avviene di solito nella musica di ricerca. Per quell'occasione ho realizzato "La guerra dei dischi" su testo di Stefano Benni tratto dal romanzo "Terra!".
A differenza della maggior parte degli altri musicisti, che non si sono discostati molto da un'opera musicale piuttosto tradizionale con l'aggiunta di un testo recitato, lavorando alla Guerra dei Dischi ho scoperto un linguaggio nuovo che mi è molto congeniale e che usa le tecniche digitali per combinare insieme suoni concreti, suoni astratti e testi, considerandoli elementi di uno stesso linguaggio nel quale i suoni delle parole ed i rumori di ambiente sono elementi musicali a pieno titolo, e gli elementi musicali, a loro volta, diventano estensioni della fonetica. In seguito ho composto altri lavori che impiegano questa stessa impostazione, per alcuni dei quali ho realizzato anche la parte visiva. In particolare per RadioTre ho realizzato una serie di piccoli pezzi di cinque minuti con testo di Valerio Magrelli dal titolo "I viaggi in tasca". Poi "La commedia della vanità" di Elias Canetti con la regia radiofonica di Giorgio Pressburger. Questo lavoro, oltre ad essere trasmesso dalla radio è stato rappresentato in forma scenica qualche anno fa al Mittelfest. Le azioni degli attori si svolgevano dal vivo, mentre il sonoro, comprese le voci, erano quelli realizzati da me in studio.

2- Nel caso sia dell'"Alcina" sia del "Requiem", mi sembra di capire che tu abbia lavorato molto sul testo e sulla sua tessitura verbale, per dar loro una sostrato, una materialità sonora. Che obiettivi ti sei posto? (insomma, qual è dal tuo punto di vista il rapporto parola-suono) E come hai lavorato? Hai chiesto di modificare il testo in base alle tue esigenze?

Il mio lavoro sul testo e sulla tessitura verbale è complementare a quello dello scrittore e del regista; è un lavoro che considera la dimensione sonora del teatro nella sua globalità e parte dal significato del testo per arrivare al suono: il suono della voce, i suoni che delimitano lo spazio della voce, i suoni ambientali e la loro interazione con la voce.
A differenza di come un musicista lavora in teatro o nel cinema il mio modo di fare musica in rapporto a un testo non consiste semplicemente nel sovrapporgli un commento o "creare un sottofondo", ma nell'organizzare un universo sonoro che si integri con l'azione e con l'immagine e che venga a far parte della struttura narrativa ed emozionale così intimamente da essere inscindibile dal resto. Insomma il mio è un contributo alla creazione di un 'opera unitaria dove ogni elemento sonoro e visivo risponda al medesimo ritmo.
Quando inizio a lavorare per un nuovo spettacolo teatrale per prima cosa studio il testo e cerco di pensarlo in relazione alle voci degli attori. Utilizzando la tecnologia digitale, ci sono molte cose che un musicista può fare per migliorare la recitazione e l'espressività della parola nel contesto generale. Per esempio rendere percepibile tramite l'amplificazione tutti quei particolari fonetici che normalmente si perdono, perché troppo deboli rispetto al suono di fondo. (Questa può sembrare una tecnica molto banale anche perchè ormai tutti in teatro la adoperano, ma in genere la si usa in modo talmente rozzo che di solito peggiora, invece di migliorare, la qualità della voce.) L'amplificazione dei suoni e soprattutto della voce richiede una grande conoscenza tecnica, ma sopratutto va considerata come un fatto creativo. Io considero l'amplificazione come un microscopio acustico che, al pari di un microscopio visivo, rende percepibile un microcosmo sonoro altrimenti inimmaginabile. Con il tempo ho imparato che l'espressività della voce, la sua capacità di comunicare i significati più profondi, viene data in gran parte da quei suoni accessori e apparentemente involontari che sono sempre presenti quando si parla ma che non consideriamo significanti come per esempio le incertezze di pronuncia, i respiri, gli schiocchi della lingua, i rumori della saliva. Qualche anno fa quando provavo a ripulire le voci da questi disturbi mi accorgevo che la voce perdeva tutta la sua capacità emotiva. Oggi di solito tendo a esaltare i rumori, a volte anche eliminando completamente i suoni vocalici, quelli che normalmente sono i più importanti nel canto.
Anche se il risultato delle voci da me trattate può sembrare molto naturale, in realtà per ottenerlo è necessario a volte un trattamento molto forte: l'elaborazione timbrica della voce, che si ottiene analizzando ogni componente armonica del suono fin nei suoi minimi dettagli per poi operare elaborazioni selettive. Se agli inizi dell'era della musica elettronica, negli anni '50, gli strumenti elettronici erano piuttosto grossolani ed i suoni che si ottenevano avevano un sapore inconfondibilmente "elettrico", oggi siamo arrivati ad un grado di flessibilità delle macchine sufficiente per avere elaborazioni molto sofisticate e simili per qualità ai suoni naturali.
Con il trattamento della voce è possibile anche rendere più intelligibile il testo Quando un attore si rende conto che per farsi capire non ha più bisogno continuamente di parlare forte, e che ogni suo minimo sospiro può essere ascoltato, incomincia a usare tante sfumature che normalmente sarebbero impercettibili. Ermanna Montanari per esempio, l'interprete della'Alcina ha imparato ad usare questa tecnica in modo veramente mirabile.

Il mio metodo di lavoro con i suoni strumentali è del tutto simile a quello con le voci e questo mi permette di avere una perfetta interazione tra suoni e voci . Nel caso degli strumenti tradizionali poi, e soprattutto degli strumenti a fiato, il rapporto tra strumento ed esecutore è molto vicino a quello dell'attore con la propria voce, non essendo questi strumenti altro che una estensione della cavità orale di chi li suona. Con il cornista Michele Fait, con il quale ho realizzato i suoni dell'Alcina, e con il trombonista Renzo Brocculi per il Requiem, abbiamo lavorato a lungo sul respiro e sull'emissione dei suoni accessori, quelli che non possono essere scritti in una partitura, e per questo abbiamo studiato particolari tipi di ripresa microfonica. Abbiamo anche sperimentato varie modifiche agli strumenti stessi (trombone e corno), per ottenere particolari sonorità.
La convenzione che distingue i suoni cosidetti "musicali" dai rumori non esiste più. Allora perché non considerare musica anche le voci ed i suoni ambientali? Con le nuove tecnologie ci si rende conto che tutti i suoni, siano essi prodotti da strumenti musicali, voci o dall'ambiente, possono servire alla creazione artistica.

Naturalmente un musicista in teatro non lavora da solo e questo comporta necessariamente una grande sintonia con tutti gli altri autori dello spettacolo, regista e attori innanzitutto, ma per me è sempre molto importante anche la relazione con la scenografia ed il disegno luci. Credo molto nel lavoro collettivo e sono convinto che la buona riuscita di un'opera dipenda dal grado di collaborazione che si raggiunge all'interno della compagnia.
Nel caso particolare dell'Isola di Alcina c'è voluto molto coraggio da parte di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari ad accettare la mia interferenza in un tipo di lavoro, quello del Teatro delle Albe, così tecnicamente diverso dal mio, ma tra noi si è stabilita subito una sintonia creativa perfetta. Nel Requiem ho avuto l'opportunità di ampliare ancora di più il mio rapporto tra musica e teatro. Fanny e Alexander ha utilizzato da sempre le tecnologie digitali ed unendo le nostre competenze abbiamo realizzato uno spettacolo molto complesso.


3 - Tu lavori molto con l'elettronica. Che rapporto si crea sulla scena con le voci "live" degli attori? (Per esempio, che rapporto si crea tra i tempi "fissi" delle basi e quelli più flessibili degli attori e del pubblico? Come gestisci il rapporto tra questi due "ritmi"?)

Nella realizzazione di uno spettacolo teatrale una parte sempre più importante è riservata al rapporto uomo/macchina. Partendo dai primi decenni del secolo scorso, attraverso le avanguardie artistiche come il futurismo, il costruttivismo e l'espressionismo del Bauhaus, il teatro è divenuto una macchina dinamica nella quale scenografia e luce hanno sviluppato una grande duttilità assumendo la stessa importanza del testo e della recitazione.
In questa ottica l'impiego della tecnologia elettronica è un ulteriore passo nell'invenzione scenica che ci da la possibilità di manipolare immagini, movimenti e suoni considerandoli come elementi di un'unica partitura.
Credo che il maggior vantaggio portato dalle macchine digitali in tutte le attività umane, e quindi anche nel teatro e nella musica, sia la loro programmabilità. Intendo con questo la possibilità di fissare molto esattamente nel tempo gli eventi e di ripetere le sequenze programmate ogni volta che lo si desidera, apportando le eventuali modifiche senza dover ripetere tutta la sequenza ogni volta da capo.
Teoricamente questo metodo di lavoro è molto simile a quello che si usa già da tempo nel cinema. Di fatto in teatro prima dell'impiego dei computer tutto questo era quasi impossibile. E poi in teatro c'è un elemento che rende tutto molto più affascinante:l'interazione dal vivo, in tempo reale, tra l'uomo e la macchina. Oggi la tecnologia ci mette a disposizione macchine che non sono più rigidamente legate a tempi predeterminati e quindi possiamo far interagire in vario modo sequenze digitali e attori dal vivo.
Fare interagire sequenze prefissate con le azioni teatrali dal vivo è stato sempre molto stimolante per me dal punto di vista creativo. In ogni spettacolo si presentano ogni volta problemi di interazione tra il tempo di recitazione degli attori (o anche di uno strumentista che suona) e le sequenze predeterminate di suoni, di luci, di movimenti scenici. La ricerca delle risoluzioni più adeguate mi ha portato spesso a trovare nuove idee drammaturgicamente determinanti.
Nel caso dell'Alcina per esempio le aperture e le chiusure dei microfoni degli attori ed i cambiamenti di riverberazione della voce sono programmate nel tempo. Così durante lo spettacolo non è necessario eseguire operazioni meccaniche e ci si può concentrare esclusivamente sulle variabili più delicate dello spettacolo, come il rapporto di intelligibilità tra suono e voce. Anche il movimento del suono nello spazio è completamente automatizzato: ci sono fino a ventiquattro suoni contemporanei che vengono spostati nello spazio seguendo ognuno il proprio percorso. Nel Requiem viene utilizzato un sistema molto più complesso costituito da tre computer sincronizzati tra loro: uno di questi gestisce tutti i suoni preorganizzati su 24 piste, un altro gestisce nel tempo l'elaborazione delle voci dal vivo seguendo una partitura per ciascun attore. Il terzo computer è utilizzato per il controllo delle luci in sincrono con il suono. Per fare tutto lo spettacolo "a mano" occorrerebbero più di dieci operatori, ed una grande confusione, mentre noi siamo soltanto in due. L'unica cosa che dobbiamo controllare parzialmente a mano è movimento delle voci nello spazio seguendo il movimento degli attori.
Per quanto riguarda il rapporto tra i tempi degli attori e i tempi delle sequenze di solito sono gli attori a seguire ed a prendere i riferimenti dai suoni e dalle luci, cosa che li obbliga inizialmente ad un lavoro di apprendimento più lungo, ma che in seguito quando, i tempi sono ben calibrati, aumenta la loro sicurezza.Naturalmente è possibile anche il contrario, far seguire gli attori dalle macchine, anche se tecnicamente è un po' più complicato. Nell'Alcina per esempio ci sono dei momenti in cui è Ermanna che da il tempo di riferimento e tutti si adeguano a lei. Nel 1995 ho scritto "Macchine Virtuose", un concerto per il gruppo di percussionisti Ars Ludi dove gli esecutori sono il riferimento dei computer, che seguono perfettamente ogni loro minima variazione di tempo e di dinamica.

Nell'amplificazione dal vivo c'è un aspetto nuovo che spesso inquieta molto i musicisti, ma in particolare gli attori: il non controllo totale della propria emissione sonora. La voce amplificata viene diffusa da un altoparlante, che per motivi tecnici non può essere troppo vicino alla fonte sonora, perciò l'attore non può ascoltare il risultato della propria voce amplificata esattamente come si ascolta in platea, a meno di non impiegare un complesso sistema di cuffie (hear monitor). L'attore è costretto perciò a fidarsi dell'operatore che controlla i microfoni,e questo fa dell'operatore un vero e proprio interprete che si frappone fra il suono dal vivo ed il suono amplificato.
Negli anni '60 Karlheinz Stockhausen ha composto "Microphonie II" per tam-tam amplificato e filtrato e questo è, a mia conoscenza, il primo lavoro che impiega in musica un concetto di orchestrazione "in serie", cioè con modificazionei a catena di uno stesso suono, in alternativa all'orchestrazione tradizionale "in parallelo", dove i suoni prodotti individualmente dai vari orchestrali si sommano. Nel pezzo di Stockhusen due esecutori suonano un tam-tam del diametro d due metri. Due esecutori amplificano il suono tenendo in mano un microfono ciascuno selezionando solo alcuni dettagli del suono da amplificare secondo una partitura specifica. Altri due esecutori modificano il suono preso dai microfoni variando due filtri, anche loro secondo una specifica parte. Per il mio lavoro in teatro questo trattamento successivo del suono amplificato è molto importante, perchè così è possibile manipolare in modo musicale le voci degli attori.
In Italia normalmente si considera il lavoro dell'operatore elettronico come una mansione puramente tecnica ed è questa la causa dell'estrema arretratezza nell'uso delle nuove tecnologie. Ho ascoltato molti concerti completamente rovinati da una cattiva amplificazione. E nell'ambito teatrale ho visto anche di peggio. In teatro la tecnologia usata per il suono risale per lo più a trent'anni fa: vengono sistemati due altoparlanti ai lati del palco e da li vengono mandati tutti i suoni registrati e quelli dal vivo. Così suoni e immagini non corrispondono più spazialmente e mentre l'attore parla in una posizione, il suono della sua voce si ascolta da tutt'altra parte magari mescolato con altre voci. Una tale dimostrazione di barbarie è oggi inconcepibile se si pensa all'alta qualità tecnica disponibile (che per esempio il cinema sfrutta con molta efficacia).

Una parte fondamentale del lavoro di un musicista che lavora con l'elettroacustica è la progettazione dello spazio sonoro. Nella realizzazione di uno spettacolo per me è prioritaria la progettazione di un sistema di diffusione che ricrei uno spazio sonoro artificiale così come viene fatto per l'immagine dallo scenografo e dal disegnatore luci. Questo spazio sonoro deve considerare non solo la scena ma tutto lo spazio in cui avviene la rappresentazione, spettatori compresi. Le voci degli attori devono per questo devono essere amplificate e riposizionate nello spazio.

4- Quale può essere oggi la funzione del teatro musicale? (o di un teatro musicale?) (anche in rapporto ai costi di produzione allestimento, alla situazione dei teatri lirici e del loro pubblico...)

La nostra cultura sta andando sempre più verso una visione olistica del mondo e anche tra i vari linguaggi artistici è sempre più forte la necessità del superamento degli schemi tradizionali verso una maggiore interazione, di conseguenza le modalità di comunicazione di oggi richiedono linguaggi di tipo logico superiore ai precedenti.
Il teatro in questi ultimi anni ha dimostrato di essere disponibile ad un rinnovamento in questo senso ed è diventato sempre più la sede naturale nella quale confluiscono tutte le arti per dare vita ad un ambiente creativo globale. In tutto ciò la musica, intesa nella sua accezione più ampia di arte di organizzare suoni, ha un ruolo fondamentale ed insostituibile.

Il rapporto tra parola e suono è sempre stato di grande importanza nella musica e la sua espressione più alta è stata in passato il melodramma e l'opera lirica sette e ottocentesca. Oggi invece la riproposizione della tecnica del bel canto nella musica è difficilmente praticabile. Una dimostrazione spesso imbarazzante di questo sono la maggioranza delle opere liriche contemporanee che si mantengono legate a questa tecnica. Inoltre gli enti lirici italiani si sono dimostrati inadatti ad ospitare e a promuovere al loro interno nuove forme musicali, sia dal punto di vista artistico, sia dal punto di vista tecnico ed organizzativo. Nei teatri lirici si continuano a rappresentare quasi esclusivamente le opere del passato con orchestre e cantanti che ne perpetuanuano la tradizione, mentre a giustificazione del nuovo si rinnovano gli allestimenti impiegando le tecniche più avanzate.
Per questo le opere contemporanee hanno necessità di trovare spazi alternativi. Compito non facile visto anche l'orientamento del sistema di finanziamento pubblico completamente sbilanciato verso la tradizione e con preoccupanti tentazioni verso la musica leggera.

Credo che l'ambiente del teatro di ricerca sia in questo momento molto ricettivo anche per quel che riguarda la nuova musica. Lo dimostra l'attenzione sempre più grande che molte compagnie di teatro dimostrano verso la musica contemporanea e l'esigenza, sempre più diffusa, di collaborazione con i musicisti nella creazione di nuovi spettacoli in cui la musica sia una parte integrante dell'ideazione.
In questa direzione è rivolto il mio lavoro con il Teatro delle Albe e con Fanny & Alexander che ha dato risultati interessanti sia dal punto di vista teatrale che musicale.

Credo comunque che il teatro musicale, oltre a cercare nuovi spazi alternativi, debba avere la forza intellettuale di avventurarsi in territori più vasti e di confrontarsi con le altre forme artistiche.
Continuare a parlare di teatro musicale nei termini tradizionali significherebbe isolare ancora di più la musica contemporanea, e relegarla nella torre d'avorio nella quale è isolata già da troppo tempo.

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giugno 2000
In Die Resurrectionis
Conversazione di Franco Masotti con Luigi Ceccarelli
Pubblicato sul catalogo generale del Ravenna Festival 2000

Puoi spiegarci la genesi di questo tuo lavoro? Il fatto di aver lavorato su un "frammento", un objet trouvé sonoro quasi dissepolto e comunque de-contestualizzato dalla liturgia nella quale era inserito come ha influito sul tuo approccio compositivo?

Il mio lavoro sul canto gregoriano, di cui In Die Resurrectionis rappresenta il secondo "episodio" dopo Exsultet, trae origine dall'incontro determinante con Bonifacio Baroffio. Sono state le conversazioni con lui a farmi scoprire quanto il rapporto tra musica e spiritualità, al di la di ogni credenza religiosa, possa essere importante e profondo, e come oggi sia ancora possibile un legame vitale con il canto gregoriano (ma a questo proposito non posso che rimandare al suo scritto "Canto Gregoriano e Musica Computerizzata", pubblicato lo scorso anno nel catalogo della rassegna "Luce d'Oriente").
Al Conservatorio ho studiato la musica pre-polifonica e l'impressione che ne ho sempre tratto è che quei secoli solo apparentemente "bui" siano stati in realtà un periodo molto stimolante e vivo per la musica, tanto che in appena tre secoli è stata creata ex nihilo la scrittura musicale e di conseguenza la polifonia, una svolta unica tra le varie culture del nostro pianeta. Ma se pure mediante la polifonia la musica si è enormemente arricchita dal punto di vista intellettuale, con l'andar del tempo si è teso sempre più a dimenticare la potenza fortemente emozionale e mistica della musica.
Il gregoriano mi interessa e mi affascina perché credo rappresenti la massima espressione della spiritualità ancora del tutto libera da "meccanismi" e sovrastrutture formali. La mia musica scaturisce spesso a partire da una ricerca continua del suono "primordiale", il suono che mantiene quella possibilità incontaminata di comunicare oltre le convenzioni ed i generi. È per questo che sento il canto gregoriano così vicino, per la sua semplicità e potenza evocativa allo stesso tempo.
Naturalmente all'inizio ho sperimentato una grande difficoltà a lavorare su documenti così antichi di cui si è persa gran parte della memoria. Quello che resta sulla carta, nei manoscritti gregoriani, non rappresenta una indicazione precisa di quello che costituiva la vera essenza dei canti, sono solo indizi e tracce sparse, mentre invece la mia ambizione era quella di creare una musica che potesse ridare origine - al giorno d'oggi - ad un sentimento di sacralità autentico.

"Sembra essere cosa di grande importanza e difficile da afferrare il Topos - cioè lo spazio-luogo."
Questa è una frase di Aristotele. Cosa ha rappresentato per te il fatto di doverti misurare con un Topos come quello di San Vitale, uno spazio certamente non neutro, ma anzi compenetrato di storia, simboli, e quindi necessariamente molto "influente", "presente"? Sono stati di più i vincoli oppure le suggestioni creative?

La mia lunga esperienza di lavoro sullo spazio sonoro mi ha sempre più convinto che ogni spazio possiede un suo suono particolare e che questo stesso spazio influenza in modo sostanziale la musica. Questa consapevolezza mi obbliga in ogni mia composizione a pensare a come effettivamente "suonerà" un certo ambiente e a come sarà, come "vivrà" la musica dentro di esso.
In fin de conti anche dal punto di vista fisico lo spazio costituisce il medium irrinunciabile (almeno fino ad oggi) tra noi e la fonte sonora. Noi sentiamo il suono attraverso lo spazio e quindi sentiamo esclusivamente il suono dello spazio sonoro e mai direttamente la fonte sonora "pura", che in quanto tale non esiste.
Lo spazio influisce sull'ascolto non soltanto dal punto di vista puramente acustico, ma, essendo la percezione un fatto globale, l'ascolto coinvolge necessariamente anche tutti gli altri sensi che determinano in modo fondamentale la predispozione dell'ascoltatore. Per non parlare poi dell'influenza della memoria e storica ed emotiva di ognuno di noi.
Quando ascoltiamo il suono di un violino (come anche un canto gregoriano, tanto per rimanere in tema) questo suono ci evoca anche secoli di vicende ed emozioni di generazioni e generazioni di persone. Comporre musica non è tanto edificare una costruzione di vibrazioni acustiche, ma costruire un mondo immaginario fatto con la memoria dell'umanità. È anche per questo che non ho mai usato suoni sintetici, perché credo siano privi di storia.
Quando mi è stato proposto di creare un'opera per la basilica di San Vitale ho pensato che questo luogo sarebbe stato uno spazio che avrebbe molto "amplificato" questa concezione della musica.
Ho scritto In Die Resurrectionis immaginando ogni suono immerso nella basilica. Per essere il più possibile vicino a questo spazio ho ascoltato prima la basilica con i suoi "suoni" quotidiani e ho perfino ricreato in studio una simulazione di quell'ambiente.

Tu hai spesso lavorato con la voce, ed hai già utilizzato in passato testi o parole "sacre". Tra l'altro Giacomo Baroffio, che prima hai citato, sostiene che il "gregoriano computerizzato, costruito su esecuzioni delle melodie liturgiche, riflette quasi la loro genesi interiore, il travaglio di una preghiera che solo a poco a poco riesce a liberarsi, che non si stanca di ripetere incessantemente un micro passaggio melodico…"
Pur nella dimensione assolutamente "laica" del tuo comporre cosa pensi di questo?

Come ho detto anche prima, credo che il canto gregoriano sia rimasto uno degli ultimi esempi nell'occidente di come la musica possa avere una forte dimensione spirituale mantenendo una sua semplicità. È proprio quella sua semplicità che mi permette, come d'altra parte ha permesso a moltissima musica dei secoli passati che ha attinto da esso a piene mani, di partire da questo come elemento di base per costruire una architettura più complessa e articolata. Ma a differenza dei musicisti del passato, io ho cercato di elaborare non soltanto le melodie, ma anche la dimensione spaziale e timbrica.

Mi pare di capire che l'acqua, o meglio la "liquidità" abbia una parte non secondaria in In Die Resurrectionis. Questo ha forse qualche rapporto con il fatto che San Vitale stia a poco a poco sprofondando nel terreno per via del fenomeno della subsidenza (e che quindi l'acqua emerga dal sottosuolo), oppure è semplicemente il "suono" dell'acqua ad affascinarti?

Essendo nato e vissuto per molto tempo al mare, ho sempre considerato l'acqua come un importante elemento vitale. In questo caso, l'ultima parte di In Die Resurrectionis, ossia "Vidi Aquam", mi ha fornito la preziosa occasione di rappresentare la sensazione che ho sempre provato guardando l'orizzonte del mare: un sentimento profondo di forza unita all'assoluta calma interiore, la sensazione che per me meglio rappresenta la bellezza e la positività.

Ascoltando il nastro della tua composizione mi veniva alla mente ciò che scriveva Thomas Mann (in anni insospettabili!) nel suo Doktor Faustus, parlando della "attuazione tecnica dell'orrore, cioè gli effetti d'altoparlante che il compositore ha prescritto in diversi punti e che raggiungono una mai attuata gradazione acustica nello spazio, di modo che l'altoparlante porta alcune cose in primo piano, mentre altre sono più sbiadite nella lontananza". Non credo proprio che tu, come Adrian Leverkhun, abbia fatto un patto con il diavolo, certo emerge a tratti una violenza fonica sconvolgente, che sembra evocare orrori direttamente dagli inferi. C'entra forse con il tema della Resurrezione (il sepolcro…), oppure è una sorta di presenza dantesca che aleggia (siamo a Ravenna, in fondo)? Oppure?

Molte persone, dopo avere sentito la mia musica mi dicono di avere ascoltato, pur nella loro bellezza, suoni terribili e angoscianti.
Rispondo sempre che la mia intenzione non è mai quella di suscitare angoscia. Ma neanche il contrario. Credo che il sentimento di angoscia si provi solo davanti ad eventi sconosciuti e credo che qualsiasi musica, ascoltata senza una certa preparazione, possa essere sempre più o meno noiosa o angosciante.
Io cerco sempre di usare i suoni nella lora grande varietà, toccando tutte le loro possibili gradazioni. Il mio scopo, come credo quello di tutta la musica, è quello di suscitare emozioni. Sulla specificità dell'emozione, sulla sua positività o negatività, credo che ognuno debba fare necessariamente i conti con se stesso.
Nel caso della parte centrale di In Die Resurrectionis, che credo sia quella a cui si riferiva la domanda, ho voluto accostare il canto gregoriano del coro femminile alla voce di Giacomo Baroffio abbassata di una ottava, ottenendo in tal modo un contrasto molto forte. Mi sono anche ispirato al canto dei monaci tibetani, quando producono quei loro caratteristici e così affascinanti bordoni molto gravi per ottenere gli armonici più acuti. E proprio dai monaci tibetani ho imparato che bisogna saper ascoltare dentro al suono tutte le più piccole sfumature, e dentro i suoni gravi e complessi di sfumature ce ne sono sempre di più. Questa è una concezione che accomuna fortemente e la musica sacra e una parte della musica elettroacustica.
Non si deve essere intimoriti dal suono, ma bisogna imparare ad entrarci dentro e a farci pervadere interamente.

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Intervista di Susanna Persichilli a Luigi Ceccarelli
pubblicato sul n. 39 (Gennaio/febbraio 2001) della rivista "I Fiati"

Come si è avvicinato all'elettronica?

I miei studi musicali sono stati molto particolari. Mi sono diplomato, a diciannove anni, in elettronica industriale; fino a quell'età avevo fatto il batterista in un gruppo rock e non avevo le idee molto chiare su cosa avrei fatto da grande, ma mi piaceva molto fare il musicista. Con queste due professionalità mi sono iscritto in Conservatorio nella classe di musica elettronica, senza sapere nulla della musica scritta. Nel 1973 la musica elettronica era appena entrata in Conservatorio e c'era bisogno di nuovi allievi interessati alla materia, per questo non ho avuto difficoltà ad essere ammesso; oggi questo sarebbe impossibile perché la M.E. è diventata un corso superiore e serve un altro diploma di conservatorio per iscriversi. Così ho dovuto studiare contemporaneamente solfeggio e composizione; pur non conoscendo la scrittura musicale avevo evidentemente la "maturità" giusta per fare il compositore. Dopo tre anni avevo raggiunto il livello degli altri studenti, ma con una preparazione tecnica riguardo all'elettroacustica molto superiore a qualsiasi altro musicista che proveniva dal Conservatorio.

Nella sua musica, però, sono spesso presenti richiami al passato, al gregoriano, per esempio. Perché questo ritorno all'antico da parte di un compositore che si comincia a interessare all'elettronica da rockettaro?

Perché tutto quello che facciamo oggi è comunque legato al passato. Io penso che la musica, come tutte le arti, deve essere una sintesi tra presente, passato e futuro.

Perché il gregoriano e non la tradizione sette-ottocentesca?

La prima ragione è che un artista con pretese creative deve andare necessariamente contro il passato recente. Succede sempre, in ogni momento della storia: i giovani vanno contro i genitori, ma tendono a rivalutare i nonni. In estetica, ma anche nella vita di tutti i giorni, questo succede perché per affermare un'idea nuova e diversa bisogna andare contro quella dominante; e allora volendo recuperare la storia si attinge al passato remoto.
La seconda ragione è che per me è assolutamente necessario un recupero della dimensione sonora non influenzata dall'armonia. Credo sia questa la ragione principale che mi obbliga a staccarmi dalla musica tradizionale.
Quando ho composto La guerra dei dischi, per esempio, un pezzo ispirato ai suoni ed al mondo della musica rock, tratto da un romanzo di Stefano Benni, ho scoperto che quello che non potevo usare, del rock, erano le cadenze armoniche (quarto-quinto-primo, primo-quinto-primo), perché mi riportavano subito a quello che rappresenta la banalità del rock. Inizialmente si è trattato di una scelta inconscia, ma a metà lavoro mi sono accorto che evitando l'armonia tutto il pezzo funzionava bene.

Non ha mai pensato di occuparsi di musica strumentale?

Naturalmente quando ero studente ho scritto vari pezzi per strumenti senza elettronica tra cui un quartetto per archi e uno per sedici strumenti. Poi per varie ragioni, sia estetiche che contingenti, ho deciso di non lavorare più con la musica strumentale senza elettronica. A me piace lavorare molto sul suono, e la musica strumentale non mi permette questo; l'ambiente dove vengono eseguiti i concerti, per esempio, è quasi sempre una negazione della dimensione sonora.
Lavorando con l'elettronica, invece, ho la possibilità di tenere in maggior considerazione la qualità del suono e l'acustica dell'ambiente durante un concerto, e nei casi migliori anche di modificarlo; è un'operazione molto complicata che obbliga a un maggior lavoro, ma in genere ne vale la pena. Molto spesso penso che sarebbe più facile fare musica strumentale, ma non si ha mai la garanzia di un risultato globale di qualità. Ci sono troppe variabili che non si controllano. E poi la mia poetica parte in primo luogo dal suono.

Mi sembra che l'attenzione allo spazio sia cambiata negli ultimi anni...

Si, è vero, grazie anche alla tecnologia elettroacustica i musicisti stanno sviluppando molto interesse verso lo spazio e l'ambiente sonoro, e questo anche in senso propriamente ecologico. Ma questo si vede soprattutto fuori dall'Italia, dove si fa più musica elettroacustica e dove la ricerca anche in campo artistico viene molto stimolata e finanziata. In Italia da questo punto di vista siamo rimasi molto indietro sia per quel che riguarda le istituzioni che l'ambiente dei musicisti in generale (a volte il peso della tradizione può essere un grande freno per le nuove generazioni).
Molto spesso i compositori di musica contemporanea, quelli più accademici (si, c'è una accademia anche per la musica d'avanguardia, ed è una delle più insopportabili), scrivono le note sulla carta senza alcuna cognizione del risultato acustico, trasformando la musica in una esclusiva creazione di segni che non ha alcun rapporto con i suoni. L'elettronica porta facilmente superare questa mentalità. Io uso il computer perché mi permette di lavorare direttamente sui suoni e non su segni che rappresentano suoni e anche molto approssimativamente. In Conservatorio ancora oggi ai futuri compositori non viene insegnata l'arte dei suoni ma dell'arte dei segni.
Una causa molto negativa di questo è l'uso pressoché esclusivo e indiscriminato del pianoforte nelle classi di composizione. Il pianoforte è una macchina stupenda costruita per la musica dell'Ottocento e del primo Novecento, concepita per sviluppare i rapporti armonici e melodici; ma per quel che riguarda la qualità del suono, un pianoforte al giorno d'oggi non ci serve assolutamente a niente, soprattutto poi se è un verticale.
Credo che il pianoforte sia lo strumento che ha più ostacolato lo sviluppo della musica negli ultimi cinquant'anni, e continua ancora oggi a farlo... Naturalmente non ho nulla contro lo strumento in se che invece mi sembra bellissimo, ma è l'uso che la maggior parte dei musicisti contemporanei ne fanno.

Lei non ha composto nulla per pianoforte?

Negli anni 80, ispirato dalla musica di Cage ho scritto due pezzi per pianoforte preparato, lavorando sulle possibili trasformazioni del timbro.
E poi, a dimostrazione che il mio rapporto con questo strumento è anche di grande amore, sto realizzando le musiche ed il sound design per un'opera multimediale concepita insieme ai fotografi Roberto Masotti e Silvia Lelli, e con i testi di Mara Cantoni. Si chiama "Bianco Nero Piano Forte". Si tratta di un'opera pensata sia come installazione che come CDRom, partendo da immagini del pianoforte rigorosamente senza pianista; da queste prendono spunto brevi storie, dialoghi, versi poetici o commenti dove la dimensione fantastica si intreccia a riferimenti musicali e letterari. L'ambientazione sonora trasforma il pianoforte in uno strumento multidimensionale, rivelando la sua voce più inedita e interiore e trasforma le parole scritte in infinite sonorità in dialogo con lo strumento.
Per ora abbiamo realizzato un CD Rom di presentazione dell'opera che presto realizzeremo in forma di installazione.
Nel 1990 ho composto anche un pezzo per flauto e pianoforte, "Aura in Visibile", dove il pianoforte non è mai suonato sulla tastiera, anzi, dove il pianista non tocca quasi mai lo strumento ed il suono del flauto, per mezzo di un sistema elettromeccanico inventato da me, mette in vibrazione l'intera cordiera.

Mi sembra che un compositore che si occupa di musica elettronica sia presente in maniera più attiva sulla scena dell'esecuzione...

Certo. Con l'elettronica si possono controllare molti più parametri della musica, che normalmente il compositore deve lasciare alla prassi strumentale. E' una entusiasmante possibilità ma anche un grande limite, perché ci vuole più tempo per comporre un pezzo. I miei lavori strumentali sono composti prima al computer e poi trascritti in partitura tradizionale. Sono quindi costretto a fare un lavoro doppio: prima la realizzazione del pezzo con i suoni e poi la traduzione per l'esecutore. Se vogliamo fare un paragone con il passato è un po' come la musica che del cinque-seicento, prima eseguita sullo strumento e poi trascritta.

Quando non c'era questo rigore del foglio scritto...

Nel tempo io sono andato sempre più lontano dal foglio scritto e compongo direttamente al computer.

E' un altro legame con il passato remoto di cui parlavamo prima.

Sì, certamente. La scrittura tradizionale della musica ci ha permesso di realizzare grandi capolavori; dalla fine del '900, però, è divenuta assolutamente inadeguata ad esprimere le idee e le concezioni di un musicista di oggi.

Come nasce un suono?

Una premessa: fino agli anni Ottanta la musica elettronica aveva la pretesa di creare dei suoni dal niente, cioè direttamente dalle macchine; le variabili del suono sono però così tante che per ottenere musica interessante dal punto di vista estetico occorre specificare al computer una enorme quantità di dati, e questo diventa un lavoro troppo lungo, possibile per un ricercatore ma non per un musicista.
I suoni delle mie opere partono sempre suoni concreti, perché li ritengo più interessanti dal punto di vista estetico. Non solo, ma anche e soprattutto perché i suoni concreti hanno una "memoria".
In fondo fare musica non significa tanto produrre dei suoni, ma vuol dire soprattutto comunicare, stimolare il rapporto tra la nostra memoria e le cose che sono fuori di noi, tra tanti suoni che conosciamo e riconosciamo o conosciamo solo in modo inconscio; e questo lo possiamo fare soltanto tramite suoni naturali che noi in qualche modo riconosciamo o perlomeno che hanno già una relazione con mondo.

Come si articolano, poi, questi suoni all'interno della sua composizione?

All'inizio di una nuova composizione non so mai cosa succederà veramente alla fine, quale sarà il risultato finale. E' come partire per un lungo viaggio: si sa quando si parte, ma poi gli eventi e le nuove scoperte ti portano a cambiare molti dei tuoi progetti (a meno di non fare un viaggio organizzato, che ho sempre detestato).
Non credo, come invece succede in un famoso film di Milos Forman su Mozart, che un compositore riesca ad immaginare nella sua mente tutta una intera composizione. Se lo fosse questa musica sarebbe sicuramente troppo banale. Una composizione musicale per me deve crescere gradualmente nel tempo, lavorando sui suoni passo dopo passo, attraverso presupposti, verifiche, errori, scoperte casuali, disillusioni, illuminazioni. Senza una logica razionale insomma, ma con un costante ed inarrestabile processo di crescita. Alla fine l'oggetto è talmente complesso che non lo si può contemplare tutto "in una volta sola". E anche per me il solo modo per capirlo è ogni volta di riascoltarlo.
Io tendo, come molti, a cercare sempre delle idee nuove che ovviamente non so come suonano fino a quando non si realizzano; devo scoprirle io per primo. Non posso sapere prima cosa succederà.
Il lavoro al computer in questo mi aiuta molto perché la possibilità di rappresentazione dei suoni in immagini mi dà la possibilità di vedere in un colpo d'occhio solo, il pezzo intero.

Riesce a "sentire" il pezzo guardandolo?

Questo no; la rappresentazione visiva del suono che da il computer è comunque una convenzione che non si può tradurre in sensazione uditiva, così come qualsiasi scrittura della musica non si può istantaneamente tradurre in suono. Una immagine globale del pezzo non può rendere la sensazione precisa del pezzo, però mi aiuta nel lavoro, è uno strumento del mestiere molto utile.
Salvatore Sciarrino, per esempio, che ha un modo di comporre apparentemente molto lontano dal mondo dei computer, lavora su schemi formali che rappresentano i suoi pezzi e che lui visualizza graficamente quasi esattamente come io li visualizzo sul mio computer. Si tratta di schemi molto interessanti che danno la visione globale del suo pezzo, esattamente come faccio io.

Nella sua musica è presente una sorta di suono di fondo che si percepisce solo prestandogli attenzione. Qual è il motivo di questa presenza?

Questo discorso si rifà alla concezione dello spazio sonoro pensato come un ambiente che ci circonda e che è sempre presente nelle mie composizioni. Quando penso *a un pezzo di musica, considero non solo gli elementi principali, ma anche l'ambiente in cui i suoni si trovano. Immagino -parlo molto schematicamente- almeno due livelli: la figura principale e lo sfondo. Lo sfondo non è quasi mai percepito chiaramente, però contribuisce creare l'atmosfera generale; lo sfondo dà significato all'immagine, al significato emozionale, soprattutto. E' una regola molto importante della percezione.

Lei ha collaborato con molti scrittori. Che tipo di rapporto si viene a instaurare tra autore dei testi e musicista?

Il rapporto con gli scrittori per me è nato sempre dall'emozione che ho provato leggendo i loro testi, e dalla sensazione di condividere con loro un mondo in comune. La scelta dell'argomento, delle storie, è venuto sempre in un secondo momento. Poi dal punto di vista operativo non c'è quasi mai stato un rapporto di stretta collaborazione, in fondo scrivere testi e comporre suoni sono mestieri tecnicamente molto lontani.
In genere io inizio a lavorare quando il testo è terminato, le correzioni in seguito sono solo cose di poco conto. In molti casi scelgo un testo già fatto, come nel caso della già citata"Guerra dei Dischi". Ma anche quando il testo viene scritto con l'intenzione precisa di farne un'opera sonora, come per esempio i testi di Valeri Magrelli, non mai pensato di discutere preventivamente, se non in modo molto generico, quello che il testo doveva rappresentare. E' fondamentale per me non porre nessun vincolo allo scrittore, come anche che lui non ponga vincoli a me, e per questo serve una fiducia reciproca. Quello che cerco sempre di fare è di trasportare il mondo della parola scritta nel mondo dei suoni, rispettando al massimo l'idea del testo, e di arrivare con la musica e l'uso della parola "parlata" ad una maggiore profondità della comunicazione.

Nelle sue opere vocali c'è una grande attenzione alla voce parlata, che viene manipolata in modo molto affascinante. Che procedimenti usa per ottenere questi effetti?

Innanzi tutto è fondamentale avere a disposizione un'eccellente materia prima: le voci. Ripeto sempre ai miei allievi che per fare un buon pezzo la prima cosa, la più importante e anche la più difficile, è quella di partire da materiali di qualità e per questo occorre lavorare con interpreti molto bravi. Il lavoro di registrazione della voce è molto lungo. Per questo mi servono molte ore di lavoro con gli attori, per ottenere da loro il carattere e l'energia giusta.
Poi c'è una fase di scelta del materiale, di ascolto e di catalogazione, forse è la parte più lunga e noiosa, ma fondamentale per conoscere alla perfezione il materiale di cui si dispone. A volte per un pezzo di pochi minuti ascolto ore e ore di materiale.
La fase di elaborazione al computer è la più creativa e quella che mi diverte di più. Riesco spesso a cambiare le voci, non solo nel timbro, ma anche nell'inflessione ed nel senso delle frasi. Che procedimenti uso per ottenere questo? Potrei elencare decine di software che danno molte possibilità, ma la cosa più importante è provare e riprovare molto ed avere una direzione precisa verso la quale andare. Come per qualsiasi artigiano, più dell'utensile che usi è la tua abilità a creare che conta.

Insieme all'interesse per il teatro è evidente, dal suo catalogo, una passione per la danza che si sviluppa con la collaborazione con Lucia Latour...

La prima volta che sono venuto a Roma è stata nel 1979 per fare uno spettacolo con il "Gruppo di Lavoro Intercodice ALTRO". In questo gruppo c'erano pittori, danzatori, fotografi, grafici, musicisti (tanti artisti appartenenti a diversi campi artistici), che lavoravano insieme per realizzare una cosa che si chiamava teatro, ma era anche molto di più. Il gruppo era guidato dal pittore Achille Perilli e Lucia Latour era una delle danzatrici del gruppo e una delle ideatrici principali. Questa esperienza è stata per me così straordinaria che ho deciso di stabilirmi a Roma, dove ancora abito.
In seguito il gruppo Altro si è sciolto ed è nata la compagnia di danza Altroteatro diretta da Lucia Latour. Con lei ho continuato a lavorare fino ai primi anni '90 ed abbiamo realizzato insieme una decina di spettacoli, alcuni dei quali hanno avuto un grande successo, come per esempio "Anihccam", spettacolo di danza ispirato a Fortunato Depero e rappresentato anche in varie città Europee.
Sono tuttora molto legato a questa esperienza che considero come la più importante della mia attività di musicista, e anche quella che ha segnato tutto il mio lavoro in seguito. Da "Altro" ho imparato cose molto importanti come la rigorosità e la precisione del lavoro, l'apertura mentale verso il mondo, la consapevolezza che la musica non deve essere fatta per l'ambiente dei musicisti (come l'architettura non è fatta per gli architetti, e così via) ma per tutta la cultura nella sua totalità.

La sua musica sembra quindi essere strettamente legata all'elemento visivo...

Credo che la dimensione visiva sia importante per la musica, perché, volenti o nolenti, è una dimensione ineliminabile della percezione. Non possiamo improvvisamente decidere di ascoltare astraendoci da tutti gli altri sensi. Anche chiudendo gli occhi abbiamo sempre una percezione visiva, spaziale, tattile che condiziona fortemente l'ascolto. E poi la percezione visiva è molto importante nell'ascolto.
Mi sembra che la sempre maggior consapevolezza delle leggi della natura ci porti sempre più verso linguaggi che considerano la percezione nella sua totalità. Per questo sono molto attratto dal teatro e dalla multimedialità. Non per niente la forma d'arte che più è andata in questa direzione, è diventata la più importante di questo secolo. Parlo del cinema.

Con Altroteatro mi occupavo principalmente di musica ma non solo. Discutevamo sempre in gruppo delle varie esigenze creative e funzionali, ed il livello progettuale era un momento di discussione sull'aspetto globale di uno spettacolo. Un'esperienza che mi ha formato molto e che mi accorgo ora non avrei avuto restando esclusivamente nel campo musicale.
In questo periodo mi sono occupato anche della realizzazione di multivisioni che facevano da scenografia alla danza, costruendo al computer la partitura di sincronizzazione tra suoni ed immagini.
In seguito, per alcune delle mie opere ho pensato personalmente anche una ambientazione visiva, che è parte integrante dell'idea musicale, come per esempio "Tupac Amaru" dove un'attrice è ripresa in diretta da una telecamera e la sua immagine viene elaborata elettronicamente.
Ma ancora preferisco lavorare collaborazione con artisti visivi. Credo di conoscere l'arte visiva abbastanza da capire quali sono i miei limiti, e allora cerco sempre collaborazioni stimolanti.

Lei ha composto un pezzo, Respiri, utilizzando un corno modificato. Ce ne vuole parlare?

Quello che mi ha spinto a scrivere un pezzo per corno è proprio questo stretto rapporto tra uomo e macchina, che nel corno raggiunge uno dei livelli massimi, essendo il corno moderno lo strumento più evoluto della famiglia degli ottoni. In uno strumento a fiato è il respiro che genera il suono. Soltanto dopo che l'esecutore ha prodotto il suono, lo si può modificare con lo strumento tramite una complessa tecnica che combina soffio, tensione del labbro, movimento della lingua e delle dita.
Respiri è un pezzo per suoni di corno: un solista dal vivo suona un corno preparato e amplificato con vari microfoni. Altri suoni di corno, registrati ed elaborati precedentemente in studio, vengono diffusi nella spazio da un sistema di dieci altoparlanti indipendenti.

Come è stato modificato lo strumento?

Al corno sono state applicate altre tre campane indipendenti, con relativo canneggio, che permettessero all'esecutore di decidere liberamente a quale campana trasmettere il suono generato. I tre cilindri dei pistoni del corno che servono a variare la lunghezza del canneggio in fa, e quindi l'intonazione, vengono svitati e aperti all'estremità inferiore (quelli del canneggio in si bemolle restano intatti). A questi vengono così fissati tre tubi di plastica di sezione adattabile alla misura del pistone che svolgono la funzione di canneggi supplementari e terminano all'altra estremità con un imbuto. Quando il cornista suona premendo un pistone si apre il canneggio relativo e il suono non esce più dalla campana originaria, ma dal tubo e dall'imbuto corrispondente.
L'intonazione dei suoni così prodotti non cambia più come prima ma resta approssimativamente sulla la nota armonica di fa, mentre il timbro cambia a seconda delle dimensioni del tubo e soprattutto della forma dell'imbuto (ovviamente il suono che esce dalle nuove campane è di qualità inferiore di quello del corno normale).
Questo tipo di preparazione è stato ripreso da una composizione dei primi anni ottanta del compositore canadese David Keane.
Con questa tecnica si possono ottenere anche sequenze di suoni ribattuti a una velocità normalmente impossibile per lo strumento, eseguendo una specie di tremolo tra un imbuto amplificato ed uno no.
In Respiri una grande importanza è stata data al timbro, sia nella parte dal vivo che in quella pre-registrata. Il timbro varia dal suono tipico dello strumento ai suoni più inusuali introdotti dalla musica del '900.

Il corno compare ancora ne L'Isola di Alcina, dove viene accostato ad una "voce romagnola". Di cosa si tratta?

"L'isola di Alcina" è uno spettacolo del Teatro delle Albe di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari con il testo di Nevio Spadoni in dialetto romagnolo. E' la rappresentazione dell'"instupidimento" di Alcina, maga/guardiana di cani della campagna romagnola, ispirata all'Alcina dell'Orlando Furioso di Ariosto.
Lo spettacolo è stato prodotto dalla Biennale di Venezia e dal Ravenna Festival , ed è stato rappresentato per la prima volta a Venezia nel maggio 2000 e sarà rappresentato in vari teatri nelle prossime stagioni.
"L'isola di Alcina" è un lavoro teatrale, ed ha come sottotitolo "concerto per corno e voce romagnola" che ne rivela la particolarità . Si tratta realmente di un'opera musicale con voce solista, e la musica, sempre presente, è appunto realizzata con gli stessi suoni di corno che ho utilizzato per "Respiri". La voce principale invece è di Ermanna Montanari, straordinaria attrice, che usa la voce in una tale varietà di suoni e timbri come non avevo mai sentito prima.
Tra l'altro abbiamo anche realizzato un CD del lavoro uscito in questi giorni.

Parliamo di un'altra composizione per fiati: Birds, che ho trovato simile al pezzo per clarinetto basso di Reich.

New York Counterpoint è una sovrapposizione di melodie che variano lentamente nel tempo sovrapponendosi con leggere differenze. Nel mio pezzo per clarinetto basso al contrario le variazioni sono a blocchi e a sovrapporsi sono singoli suoni. Il lavoro di Reich potrebbe quasi essere eseguito da altri strumenti, in quanto l'idea musicale è legata principalmente alla variazione graduale della melodia, il mio invece è pensato esplicitamente per i suoni del clarinetto basso, e non potrebbe essere eseguito mai con un sax, per esempio, o con un clarinetto in si bemolle; cambierebbe tutta la natura del pezzo. In comune i due pezzi hanno la pulsazione ritmica e il timbro inconfondibile del clarinetto basso. Sono somiglianze quasi superficiali.
Conosco benissimo il pezzo di Reich, è un esercizio che spesso fanno i miei allievi, a cui chiedo di rifare la parte del nastro su un registratore multipista. E' un lavoro apparentemente facile, ma che richiede molta precisione; sincronizzare tutte le piste è un problema serio, perché se non si è precisissimi sin dall'inizio ci si accorge a metà che non controlla più niente e deve ricominciare tutto da capo.

I suoni dello strumento (rumori di chiavi, respiri), presenti spesso nelle sue composizioni, acquistano una autonomia propria, un fascino indipendente.

Lavorando con il computer è possibile considerare questi suoni come facenti parte della creazione; nella musica strumentale questo non è possibile perché ovviamente sono considerati suoni accessori e non utilizzabili. Al computer posso tranquillamente isolare questi suoni e considerarli come indipendenti. Nel pezzo per sassofono, per esempio, ho composto separatamente i suoni dell'ancia e quelli delle chiavi; sono due linee completamente diverse*. E' venuta fuori una partitura completamente diversa per suoni e per chiavi.

Come è nato il lavoro all'Edison studio?

L'Edison studio è una associazione nata insieme ad altri compositori: Alessandro Cipriani, Fabio Cifariello Ciardi e Mauro Cardi. Lo studio è nato più o meno quattro anni fa con l'idea di costruire un laboratorio dove scambiarci le conoscenze tecniche, idee, e dove poter produrre i nostri pezzi e *di altri compositori esterni. Nel tempo ci siamo trasformati in un gruppo di consulenza: ognuno di noi lavora a casa, ognuno di noi ha lo stesso studio replicato per quattro, con le stesse apparecchiature. In questo modo possiamo scambiarci dati, software, suoni, competenze. Non abbiamo più l'idea dello studio tradizionale, ma di quattro piccole isole che lavorano insieme dal punto di vista tecnico. Ora stiamo cominciando un lavoro di aggiornamento del sito per dare a tutti la possibilità di prendere dei suoni che possono servire per un uso generale e per inserire i nostri pezzi di musica.

Con quali altri centri collabora?

Con il CRM, a Roma, con lo studio Agon, a Milano, dove è stato fatto il pezzo per corno; poi molto spesso al'Imeb, a Bourges, uno dei più grandi centri francesi; dal quale negli ultimi quattro anni ho avuto tre commissioni e tre pezzi. Nel mese di marzo di solito sono lì.

Diventa molto difficile, senza una preparazione scientifica, affrontare la musica al computer?

E' una questione di forma mentis, bisogna avere le basi di una mentalità scientifica. Per rappresentare un suono è importante sapere cos'è una frequenza, una frequenza, sapere interpretare i diagrammi.
All'istituto tecnico, tanti anni fa, non capivo a cosa mi potesse servire quello studio. Non sono stato uno studente modello, però mi sono accorto della differenza fondamentale tra la mia mentalità e quella di un allievo di conservatorio.

Forse il problema è lo stesso di chi non impara sin da giovane e suonare uno strumento. Dopo i vent'anni diventa difficile.

Sì; arrivati a una certa età non si acquisiscono più tanto facilmente gli automatismi, diventa difficile fare propria una certa mentalità, padroneggiare una tecnica senza pensarci, lasciando la mente sufficientemente libera per i problemi musicali.
Fare musica al computer è una attività complessa, ma in fondo non più di quella di scrivere musica tradizionale, alla quale però siamo abituati da secoli. Per me è molto più semplice e immediato usare il sistema di rappresentazione cartesiana invece del pentagramma. Ho sempre scritto la musica così, anche quando ero studente: a parte i corali o le armonizzazioni, per esempio, i miei pezzi erano sempre scritti su carta millimetrata. Comunque io cerco di non pensare mai alla scrittura della musica, uso la notazione soltanto come mezzo; cerco di lavorare direttamente sul suono e di ascoltare con le orecchie e non con gli occhi.

Quanto riascolta un suo pezzo?

Quando devo realizzare un master per un disco devo riascoltare un pezzo per centinaia e centinaio di volte perché in un disco anche il più piccolo errore si ripeterebbe poi ogni volta che si riascolta. Per questo sono un perfezionista. Io dico che il pezzo non è finito fino a quando non arrivo a odiarlo, fin quando non lo sopporto più. Poi non riascolto mai più i miei dischi una volta finiti. Un pezzo stampato su disco è come se non fosse più per me, ma per gli altri.
Invece in concerto, dal vivo, ogni volta è una emozione vera, ogni volta mi sembra un miracolo che si ripete.

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>>>Luigi Ceccarelli  
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