Guardate la
croce dipinta sul pavimento. Guardatela e basta. Non importa che alluda al fatto
che Isis si è fatta suora. A modo suo, in casa, senza monastero e badessa.
Per disperazione e con molta dissacrazione. Dopo la morte tragica del fratello
Jerry Geremia Olsen, genio della chitarra rock, che si è tagliato la
mano sinistra. Fratello amatissimo, incesto compreso s’intende. La croce
non racconta, non necessariamente. La croce non è un simbolo di chissà
quale crisi mistica. È elemento di una segnaletica. Visiva, prima di
tutto. Come le strisce disegnate sulle piste d’atterraggio negli aeroporti.
Che servono sì a guidare, a capire dove si sta andando o ritornando,
ma sono paesaggio, geometrica “land art”. Tutto questo per dire
che il Teatro delle Albe in questo suo nuovo spettacolo, La mano, in prima assoluta
al Théâtre des Arbalestriers di Mons, in Belgio, che ha coprodotto
il lavoro con la compagnia ravennate, si rivela campione di azioni sceniche
“da vedere”, fascinosamente “spettacolari” al di là
di una ribadita predilezione per la parola, per la fluvialità della parola,
in un quadro solo apparentemente statico.
Infatti Ermanna Montanari, l’attrice che interpreta Isis, la donna che
sta in scena, la voce-corpo (definizione di Marco Martinelli, il regista) a
cui tutta la scena è dedicata, mattatrice sventata e ossessiva, nel perimetro
di quella croce così poco sacra comincia a ruotare su se stessa e sembra
non dover smettere mai. E dà inizio al suo monologo straripante, tenero,
aspro, plebeo, filosofico (mette sul piatto il senso della vita e della morte,
la creatività e il perché del suo inaridirsi e la sua necessità
per vivere o almeno per sopravvivere). Un diario in pubblico che gira intorno
al ricordo del fratello, la rockstar trasgressiva e innovativa, intorno al ricordo
del proprio adorante amore per lui, una passione da “groupie” privilegiata,
intorno alla domanda: perché si è ucciso, che cosa lo ha convinto
di «non avere più musica, di non avere mai avuto musica».
Ma fin dalle prime battute lo spettacolo, che ha come sottotitolo De profundis
rock, procede in stretta sintonia con la musica rock più speciale che
si possa immaginare. Musica non-rock. Musica oltre il rock. Ma che nasce dal
rock o, comunque, lo riguarda. Musica di Luigi Ceccarelli per un dramma con
musica o opera di teatro musicale, chiamatelo come volete. Melodramma no, per
favore.
Subito anche le luci di Vincent Longuemare sono costitutive dello spettacolo.
Una parete in fondo al palcoscenico tutta occupata da batterie di fari che si
accendono appena o sfolgorano o si spengono in parte o si spengono tutti. Invenzioni
davvero portentose. Apparato luminoso da concerto rock, se vogliamo. Oppure
qualcosa di gotico. Ma è meglio, ancora una volta, non pensare a queste
implicazioni narrative. E godere la vera narrazione di un flusso unico di parole
e suoni e luci.
E le scene in senso stretto? Efficacissime e suggestive quelle di Edoardo Sanchi.
Dopo il “balletto insensato” iniziale sulla croce Isis si sposta
su una piattaforma che è proprio fatta come un gigantesco long-playing.
Siamo in tema, certo: il rock, magari quello di un tempo, quello di Jerry Olsen
che non badava alla supertecnica di certi giovani leoni venuti dopo ma a quanto
era possibile dire del pensiero sul mondo in un brano rock. Eppure anche qui
la pedana per la prosecuzione del monologo estremista di Isis funziona benissimo
come porzione della scena di cui godere per la sua attraente forma circolare.
E in questo lavoro tutto è circolare, tutto è polisenso, tutto
è aperto (nessun effetto claustrofobico nonostante la fissità
della situazione). Il suono delle parole, anzitutto: resoconti ben scanditi
e lenti poi vertiginose “melodie” dove tutte le parole si legano
una all’altra. I modi dell’essere che quelle parole descrivono:
l’odio vitalistico per le regole e la voluttà di morte, miti e
realtà del rock ma non solo del rock, forse di tutta una “generazione
bruciata”. Il suono dei suoni (su nastro), che variano continuamente da
“respiri” vagamente ambient a laceranti spasimi di rock post-Robert
Plant e post-Jimi Hendrix, da sapiente dispersione nello spazio di punteggiature
rumoriste a elaborazioni in stile contemporaneo “colto” (e avant-garde)
delle tante memorie rock e persino blues.
Sulla pedana-Lp Isis non è più sola: ha un interlocutore muto
(l’attore Roberto Magnani) che indossa una grande testa di Topolino. Un
assistente spirituale? Una proiezione delle infatuazioni “americane”
di Isis? Un analista che la incoraggia a elaborare il lutto e a rivivere la
sua passione d’amore diventando lei stessa rockstar davanti a un microfono?
Ermanna Montanari è di nuovo chiamata, dopo L’isola di Alcina,
a una prova di sublime ammaliante sconvolgente virtuosismo. Ha voce acre che
non rifiuta la dolcezza, una voce come non educata (niente birignao, quindi),
una voce (e una testa) ultracolta per un teatro dell’esserci, della presenza
di anime e corpi esacerbati e generosi. Aderisce al ritmo musicale dell’opera
e ne detta a sua volta il ritmo, riuscendo meravigliosamente a suonare rilassata
anche nei toni di delirio.
Il compositore. Luigi Ceccarelli – vanno citati tra i suoi importanti
lavori almeno Anihccam (1989), Macchine virtuose (1993), Birds (1995), De Zarb
à Daf (1998) – ha inaugurato nel 2000 con L’isola di Alcina
la sua collaborazione col Teatro delle Albe. Proseguita con Sogno di una notte
di mezza estate (2002) e ora con La mano. Lui e il “gruppo anarchico”
di Ravenna (ancora definizione di Marco Martinelli) si sono scambiati idee e
stimoli e ora lavorano in una sintonia che corre solo il pericolo della simbiosi.
Il deus ex machina, infine. Marco Martinelli ha ricavato dal romanzo omonimo
di Luca Doninelli (Garzanti, 2001) il “libretto” per La mano. Attribuisce
il testo a Doninelli per il fatto di aver conservato i frammenti del libro tali
e quali. Ma il montaggio di questi frammenti è suo. E mirabile il gioco
di incastri, di ripetizioni, di salti improvvisi, di ritorni ossessivi sugli
stessi temi. La sua regia nasce dal rapporto più che ventennale (erotico
e professionale: una miracolosa durata) con Ermanna Montanari. Poi accoglie
le performances dei collaboratori esterni-ma-non-troppo (Ceccarelli, Longuemare,
Sanchi), non assembla, non dirige, trova il punto comune. Grande regista del
nostro tempo.