Audio
Intervista di Valerio Corzani a Luigi Ceccarelli
Rete2 della Radio Svizzera di Lugano www.rtsi.ch/Rete2
- 2008
audio
- 1a puntata
audio - 2a puntata
Testi
intervista di Oliviero Ponte di Pino a Luigi Ceccarelli
Pubblicato sulla rivista internet "a Teatro" Settembre
2001
In
Die Resurrectionis
Conversazione di Franco Masotti con Luigi Ceccarelli
Pubblicato sul catalogo generale del Ravenna Festival 2000
Intervista
di Susanna Persichilli a Luigi Ceccarelli
pubblicato sul n. 39 (Gennaio/febbraio 2001) della rivista "I
Fiati"
intervista di Oliviero Ponte di Pino
a Luigi Ceccarelli
Pubblicato sulla rivista internet "a Teatro" Settembre
2001
1- Perché ti sei avvicinato al teatro? Il teatro musicale
era già un filone di lavoro che perseguivi nell'ambito
della tua ricerca musicale? (scusa l'ignoranza).
In
realtà sono sempre stato un musicista molto vicino al teatro
e alle arti visive. E non solo perché ho collaborato con
artisti delle più varie discipline, ma soprattutto perché,
al di là della conoscenza di una tecnica specifica, credo
che l'operato di ogni artista sia in rapporto con tutta la cultura
e non soltanto con il proprio linguaggio. Quando penso alle opere
che più hanno influenzato il mio lavoro mi vengono in mente,
oltre che musicisti, nomi di pittori, registi, architetti o scrittori.
Fin
dall'inizio della mia formazione musicale, quando ero ancora uno
studente al Conservatorio di Pesaro, il mio interesse per le arti
visive è stato molto forte. Verso la metà degli
anni '70 ho lavorato insieme ad un gruppo di studenti dell'Accademia
di Belle Arti di Urbino per la progettazione di un'installazione
che coinvolgesse l'intero palazzo del Conservatorio. Si trattava
di un percorso sonoro e visivo che trasformava quell'austero ambiente
accademico in un luogo di incontri stravaganti: rumori concreti
di ambienti, rumori di oggetti e frammenti di varie conversazioni
erano liberamente associati a oggetti e ambienti dell'arte povera.
Pochi anni dopo, il mio professore di Musica Elettronica, Walter
Branchi, mi fece conoscere il pittore Achille Perilli e gli artisti
che lavoravano con lui in "ALTRO, gruppo di lavoro intercodice"
Si trattava di un gruppo formato da artisti provenienti da varie
discipline (pittori, fotografi, grafici, architetti, danzatori)
che realizzava spettacoli partendo dall'idea di una relazione
paritaria tra tutti i linguaggi artistici. Con loro ho lavorato
dal '77 all' '80 nella creazione di "Abominable A",
una performance teatrale nella quale tutta la parte sonora, da
me realizzata, era costituita unicamente da parole che iniziavano
per "A", lette in sequenza da vocabolari di varie lingue
e modificate elettronicamente.
In seguito il gruppo si è trasformato in "ALTRO teatro",
la compagnia di danza diretta da Lucia Latour e con Lucia abbiamo
continuato a realizzare spettacoli di danza e musica fino alla
metà degli anni novanta. Il nostro metodo di lavoro era
molto influenzato dal lavoro intercodice, e anche in questo caso
la progettazione degli spettacoli era fatta con criteri di lavoro
di equipe. Oltre alla musica ho realizzato al computer complesse
multivisioni che servivano da scenografia. Tra tutti vorrei ricordare
"Anihccam" spettacolo ispirato a Fortunato Depero, che
all'inizio degli anni '90 ha avuto grande successo in Italia e
in Europa.
Il
mio avvicinamento al teatro di parola, invece, è iniziato
di recente ed è stato un percorso a tappe, nato in modo
per me del tutto imprevedibile partendo dalla radio.
Nel 1994 Radio Tre aveva commissionato a venti musicisti italiani
altrettanti "Radiofilm". Con questo termine, inventato
da Luca Francesconi, si proponeva ai compositori di realizzare
un'opera musicale partendo da una storia e utilizzando il linguaggio
del cinema e le tecnologie elettroniche ad esso connesse, ma,
ovviamente, in assenza di immagine. Due erano le novità
rilevanti rispetto al tipo di commissione che viene di solito
fatta ad un musicista: l'obbligo di utilizzare le tecniche digitali
nella composizione non solo come ausilio tecnico ma come elemento
creativo, e la richiesta che il testo e la trama del racconto
risultassero assolutamente comprensibili, a differenza di quel
che avviene di solito nella musica di ricerca. Per quell'occasione
ho realizzato "La guerra dei dischi" su testo di Stefano
Benni tratto dal romanzo "Terra!".
A differenza della maggior parte degli altri musicisti, che non
si sono discostati molto da un'opera musicale piuttosto tradizionale
con l'aggiunta di un testo recitato, lavorando alla Guerra dei
Dischi ho scoperto un linguaggio nuovo che mi è molto congeniale
e che usa le tecniche digitali per combinare insieme suoni concreti,
suoni astratti e testi, considerandoli elementi di uno stesso
linguaggio nel quale i suoni delle parole ed i rumori di ambiente
sono elementi musicali a pieno titolo, e gli elementi musicali,
a loro volta, diventano estensioni della fonetica. In seguito
ho composto altri lavori che impiegano questa stessa impostazione,
per alcuni dei quali ho realizzato anche la parte visiva. In particolare
per RadioTre ho realizzato una serie di piccoli pezzi di cinque
minuti con testo di Valerio Magrelli dal titolo "I viaggi
in tasca". Poi "La commedia della vanità"
di Elias Canetti con la regia radiofonica di Giorgio Pressburger.
Questo lavoro, oltre ad essere trasmesso dalla radio è
stato rappresentato in forma scenica qualche anno fa al Mittelfest.
Le azioni degli attori si svolgevano dal vivo, mentre il sonoro,
comprese le voci, erano quelli realizzati da me in studio.
2- Nel caso sia dell'"Alcina" sia del "Requiem",
mi sembra di capire che tu abbia lavorato molto sul testo e sulla
sua tessitura verbale, per dar loro una sostrato, una materialità
sonora. Che obiettivi ti sei posto? (insomma, qual è dal
tuo punto di vista il rapporto parola-suono) E come hai lavorato?
Hai chiesto di modificare il testo in base alle tue esigenze?
Il
mio lavoro sul testo e sulla tessitura verbale è complementare
a quello dello scrittore e del regista; è un lavoro che
considera la dimensione sonora del teatro nella sua globalità
e parte dal significato del testo per arrivare al suono: il suono
della voce, i suoni che delimitano lo spazio della voce, i suoni
ambientali e la loro interazione con la voce.
A differenza di come un musicista lavora in teatro o nel cinema
il mio modo di fare musica in rapporto a un testo non consiste
semplicemente nel sovrapporgli un commento o "creare un sottofondo",
ma nell'organizzare un universo sonoro che si integri con l'azione
e con l'immagine e che venga a far parte della struttura narrativa
ed emozionale così intimamente da essere inscindibile dal
resto. Insomma il mio è un contributo alla creazione di
un 'opera unitaria dove ogni elemento sonoro e visivo risponda
al medesimo ritmo.
Quando inizio a lavorare per un nuovo spettacolo teatrale per
prima cosa studio il testo e cerco di pensarlo in relazione alle
voci degli attori. Utilizzando la tecnologia digitale, ci sono
molte cose che un musicista può fare per migliorare la
recitazione e l'espressività della parola nel contesto
generale. Per esempio rendere percepibile tramite l'amplificazione
tutti quei particolari fonetici che normalmente si perdono, perché
troppo deboli rispetto al suono di fondo. (Questa può sembrare
una tecnica molto banale anche perchè ormai tutti in teatro
la adoperano, ma in genere la si usa in modo talmente rozzo che
di solito peggiora, invece di migliorare, la qualità della
voce.) L'amplificazione dei suoni e soprattutto della voce richiede
una grande conoscenza tecnica, ma sopratutto va considerata come
un fatto creativo. Io considero l'amplificazione come un microscopio
acustico che, al pari di un microscopio visivo, rende percepibile
un microcosmo sonoro altrimenti inimmaginabile. Con il tempo ho
imparato che l'espressività della voce, la sua capacità
di comunicare i significati più profondi, viene data in
gran parte da quei suoni accessori e apparentemente involontari
che sono sempre presenti quando si parla ma che non consideriamo
significanti come per esempio le incertezze di pronuncia, i respiri,
gli schiocchi della lingua, i rumori della saliva. Qualche anno
fa quando provavo a ripulire le voci da questi disturbi mi accorgevo
che la voce perdeva tutta la sua capacità emotiva. Oggi
di solito tendo a esaltare i rumori, a volte anche eliminando
completamente i suoni vocalici, quelli che normalmente sono i
più importanti nel canto.
Anche se il risultato delle voci da me trattate può sembrare
molto naturale, in realtà per ottenerlo è necessario
a volte un trattamento molto forte: l'elaborazione timbrica della
voce, che si ottiene analizzando ogni componente armonica del
suono fin nei suoi minimi dettagli per poi operare elaborazioni
selettive. Se agli inizi dell'era della musica elettronica, negli
anni '50, gli strumenti elettronici erano piuttosto grossolani
ed i suoni che si ottenevano avevano un sapore inconfondibilmente
"elettrico", oggi siamo arrivati ad un grado di flessibilità
delle macchine sufficiente per avere elaborazioni molto sofisticate
e simili per qualità ai suoni naturali.
Con il trattamento della voce è possibile anche rendere
più intelligibile il testo Quando un attore si rende conto
che per farsi capire non ha più bisogno continuamente di
parlare forte, e che ogni suo minimo sospiro può essere
ascoltato, incomincia a usare tante sfumature che normalmente
sarebbero impercettibili. Ermanna Montanari per esempio, l'interprete
della'Alcina ha imparato ad usare questa tecnica in modo veramente
mirabile.
Il
mio metodo di lavoro con i suoni strumentali è del tutto
simile a quello con le voci e questo mi permette di avere una
perfetta interazione tra suoni e voci . Nel caso degli strumenti
tradizionali poi, e soprattutto degli strumenti a fiato, il rapporto
tra strumento ed esecutore è molto vicino a quello dell'attore
con la propria voce, non essendo questi strumenti altro che una
estensione della cavità orale di chi li suona. Con il cornista
Michele Fait, con il quale ho realizzato i suoni dell'Alcina,
e con il trombonista Renzo Brocculi per il Requiem, abbiamo lavorato
a lungo sul respiro e sull'emissione dei suoni accessori, quelli
che non possono essere scritti in una partitura, e per questo
abbiamo studiato particolari tipi di ripresa microfonica. Abbiamo
anche sperimentato varie modifiche agli strumenti stessi (trombone
e corno), per ottenere particolari sonorità.
La convenzione che distingue i suoni cosidetti "musicali"
dai rumori non esiste più. Allora perché non considerare
musica anche le voci ed i suoni ambientali? Con le nuove tecnologie
ci si rende conto che tutti i suoni, siano essi prodotti da strumenti
musicali, voci o dall'ambiente, possono servire alla creazione
artistica.
Naturalmente
un musicista in teatro non lavora da solo e questo comporta necessariamente
una grande sintonia con tutti gli altri autori dello spettacolo,
regista e attori innanzitutto, ma per me è sempre molto
importante anche la relazione con la scenografia ed il disegno
luci. Credo molto nel lavoro collettivo e sono convinto che la
buona riuscita di un'opera dipenda dal grado di collaborazione
che si raggiunge all'interno della compagnia.
Nel caso particolare dell'Isola di Alcina c'è voluto molto
coraggio da parte di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari ad
accettare la mia interferenza in un tipo di lavoro, quello del
Teatro delle Albe, così tecnicamente diverso dal mio, ma
tra noi si è stabilita subito una sintonia creativa perfetta.
Nel Requiem ho avuto l'opportunità di ampliare ancora di
più il mio rapporto tra musica e teatro. Fanny e Alexander
ha utilizzato da sempre le tecnologie digitali ed unendo le nostre
competenze abbiamo realizzato uno spettacolo molto complesso.
3 - Tu lavori molto con l'elettronica. Che rapporto si crea
sulla scena con le voci "live" degli attori? (Per esempio,
che rapporto si crea tra i tempi "fissi" delle basi
e quelli più flessibili degli attori e del pubblico? Come
gestisci il rapporto tra questi due "ritmi"?)
Nella
realizzazione di uno spettacolo teatrale una parte sempre più
importante è riservata al rapporto uomo/macchina. Partendo
dai primi decenni del secolo scorso, attraverso le avanguardie
artistiche come il futurismo, il costruttivismo e l'espressionismo
del Bauhaus, il teatro è divenuto una macchina dinamica
nella quale scenografia e luce hanno sviluppato una grande duttilità
assumendo la stessa importanza del testo e della recitazione.
In questa ottica l'impiego della tecnologia elettronica è
un ulteriore passo nell'invenzione scenica che ci da la possibilità
di manipolare immagini, movimenti e suoni considerandoli come
elementi di un'unica partitura.
Credo che il maggior vantaggio portato dalle macchine digitali
in tutte le attività umane, e quindi anche nel teatro e
nella musica, sia la loro programmabilità. Intendo con
questo la possibilità di fissare molto esattamente nel
tempo gli eventi e di ripetere le sequenze programmate ogni volta
che lo si desidera, apportando le eventuali modifiche senza dover
ripetere tutta la sequenza ogni volta da capo.
Teoricamente questo metodo di lavoro è molto simile a quello
che si usa già da tempo nel cinema. Di fatto in teatro
prima dell'impiego dei computer tutto questo era quasi impossibile.
E poi in teatro c'è un elemento che rende tutto molto più
affascinante:l'interazione dal vivo, in tempo reale, tra l'uomo
e la macchina. Oggi la tecnologia ci mette a disposizione macchine
che non sono più rigidamente legate a tempi predeterminati
e quindi possiamo far interagire in vario modo sequenze digitali
e attori dal vivo.
Fare interagire sequenze prefissate con le azioni teatrali dal
vivo è stato sempre molto stimolante per me dal punto di
vista creativo. In ogni spettacolo si presentano ogni volta problemi
di interazione tra il tempo di recitazione degli attori (o anche
di uno strumentista che suona) e le sequenze predeterminate di
suoni, di luci, di movimenti scenici. La ricerca delle risoluzioni
più adeguate mi ha portato spesso a trovare nuove idee
drammaturgicamente determinanti.
Nel caso dell'Alcina per esempio le aperture e le chiusure dei
microfoni degli attori ed i cambiamenti di riverberazione della
voce sono programmate nel tempo. Così durante lo spettacolo
non è necessario eseguire operazioni meccaniche e ci si
può concentrare esclusivamente sulle variabili più
delicate dello spettacolo, come il rapporto di intelligibilità
tra suono e voce. Anche il movimento del suono nello spazio è
completamente automatizzato: ci sono fino a ventiquattro suoni
contemporanei che vengono spostati nello spazio seguendo ognuno
il proprio percorso. Nel Requiem viene utilizzato un sistema molto
più complesso costituito da tre computer sincronizzati
tra loro: uno di questi gestisce tutti i suoni preorganizzati
su 24 piste, un altro gestisce nel tempo l'elaborazione delle
voci dal vivo seguendo una partitura per ciascun attore. Il terzo
computer è utilizzato per il controllo delle luci in sincrono
con il suono. Per fare tutto lo spettacolo "a mano"
occorrerebbero più di dieci operatori, ed una grande confusione,
mentre noi siamo soltanto in due. L'unica cosa che dobbiamo controllare
parzialmente a mano è movimento delle voci nello spazio
seguendo il movimento degli attori.
Per quanto riguarda il rapporto tra i tempi degli attori e i tempi
delle sequenze di solito sono gli attori a seguire ed a prendere
i riferimenti dai suoni e dalle luci, cosa che li obbliga inizialmente
ad un lavoro di apprendimento più lungo, ma che in seguito
quando, i tempi sono ben calibrati, aumenta la loro sicurezza.Naturalmente
è possibile anche il contrario, far seguire gli attori
dalle macchine, anche se tecnicamente è un po' più
complicato. Nell'Alcina per esempio ci sono dei momenti in cui
è Ermanna che da il tempo di riferimento e tutti si adeguano
a lei. Nel 1995 ho scritto "Macchine Virtuose", un concerto
per il gruppo di percussionisti Ars Ludi dove gli esecutori sono
il riferimento dei computer, che seguono perfettamente ogni loro
minima variazione di tempo e di dinamica.
Nell'amplificazione
dal vivo c'è un aspetto nuovo che spesso inquieta molto
i musicisti, ma in particolare gli attori: il non controllo totale
della propria emissione sonora. La voce amplificata viene diffusa
da un altoparlante, che per motivi tecnici non può essere
troppo vicino alla fonte sonora, perciò l'attore non può
ascoltare il risultato della propria voce amplificata esattamente
come si ascolta in platea, a meno di non impiegare un complesso
sistema di cuffie (hear monitor). L'attore è costretto
perciò a fidarsi dell'operatore che controlla i microfoni,e
questo fa dell'operatore un vero e proprio interprete che si frappone
fra il suono dal vivo ed il suono amplificato.
Negli anni '60 Karlheinz Stockhausen ha composto "Microphonie
II" per tam-tam amplificato e filtrato e questo è,
a mia conoscenza, il primo lavoro che impiega in musica un concetto
di orchestrazione "in serie", cioè con modificazionei
a catena di uno stesso suono, in alternativa all'orchestrazione
tradizionale "in parallelo", dove i suoni prodotti individualmente
dai vari orchestrali si sommano. Nel pezzo di Stockhusen due esecutori
suonano un tam-tam del diametro d due metri. Due esecutori amplificano
il suono tenendo in mano un microfono ciascuno selezionando solo
alcuni dettagli del suono da amplificare secondo una partitura
specifica. Altri due esecutori modificano il suono preso dai microfoni
variando due filtri, anche loro secondo una specifica parte. Per
il mio lavoro in teatro questo trattamento successivo del suono
amplificato è molto importante, perchè così
è possibile manipolare in modo musicale le voci degli attori.
In Italia normalmente si considera il lavoro dell'operatore elettronico
come una mansione puramente tecnica ed è questa la causa
dell'estrema arretratezza nell'uso delle nuove tecnologie. Ho
ascoltato molti concerti completamente rovinati da una cattiva
amplificazione. E nell'ambito teatrale ho visto anche di peggio.
In teatro la tecnologia usata per il suono risale per lo più
a trent'anni fa: vengono sistemati due altoparlanti ai lati del
palco e da li vengono mandati tutti i suoni registrati e quelli
dal vivo. Così suoni e immagini non corrispondono più
spazialmente e mentre l'attore parla in una posizione, il suono
della sua voce si ascolta da tutt'altra parte magari mescolato
con altre voci. Una tale dimostrazione di barbarie è oggi
inconcepibile se si pensa all'alta qualità tecnica disponibile
(che per esempio il cinema sfrutta con molta efficacia).
Una
parte fondamentale del lavoro di un musicista che lavora con l'elettroacustica
è la progettazione dello spazio sonoro. Nella realizzazione
di uno spettacolo per me è prioritaria la progettazione
di un sistema di diffusione che ricrei uno spazio sonoro artificiale
così come viene fatto per l'immagine dallo scenografo e
dal disegnatore luci. Questo spazio sonoro deve considerare non
solo la scena ma tutto lo spazio in cui avviene la rappresentazione,
spettatori compresi. Le voci degli attori devono per questo devono
essere amplificate e riposizionate nello spazio.
4- Quale può essere oggi la funzione del teatro musicale?
(o di un teatro musicale?) (anche in rapporto ai costi di produzione
allestimento, alla situazione dei teatri lirici e del loro pubblico...)
La
nostra cultura sta andando sempre più verso una visione
olistica del mondo e anche tra i vari linguaggi artistici è
sempre più forte la necessità del superamento degli
schemi tradizionali verso una maggiore interazione, di conseguenza
le modalità di comunicazione di oggi richiedono linguaggi
di tipo logico superiore ai precedenti.
Il teatro in questi ultimi anni ha dimostrato di essere disponibile
ad un rinnovamento in questo senso ed è diventato sempre
più la sede naturale nella quale confluiscono tutte le
arti per dare vita ad un ambiente creativo globale. In tutto ciò
la musica, intesa nella sua accezione più ampia di arte
di organizzare suoni, ha un ruolo fondamentale ed insostituibile.
Il
rapporto tra parola e suono è sempre stato di grande importanza
nella musica e la sua espressione più alta è stata
in passato il melodramma e l'opera lirica sette e ottocentesca.
Oggi invece la riproposizione della tecnica del bel canto nella
musica è difficilmente praticabile. Una dimostrazione spesso
imbarazzante di questo sono la maggioranza delle opere liriche
contemporanee che si mantengono legate a questa tecnica. Inoltre
gli enti lirici italiani si sono dimostrati inadatti ad ospitare
e a promuovere al loro interno nuove forme musicali, sia dal punto
di vista artistico, sia dal punto di vista tecnico ed organizzativo.
Nei teatri lirici si continuano a rappresentare quasi esclusivamente
le opere del passato con orchestre e cantanti che ne perpetuanuano
la tradizione, mentre a giustificazione del nuovo si rinnovano
gli allestimenti impiegando le tecniche più avanzate.
Per questo le opere contemporanee hanno necessità di trovare
spazi alternativi. Compito non facile visto anche l'orientamento
del sistema di finanziamento pubblico completamente sbilanciato
verso la tradizione e con preoccupanti tentazioni verso la musica
leggera.
Credo
che l'ambiente del teatro di ricerca sia in questo momento molto
ricettivo anche per quel che riguarda la nuova musica. Lo dimostra
l'attenzione sempre più grande che molte compagnie di teatro
dimostrano verso la musica contemporanea e l'esigenza, sempre
più diffusa, di collaborazione con i musicisti nella creazione
di nuovi spettacoli in cui la musica sia una parte integrante
dell'ideazione.
In questa direzione è rivolto il mio lavoro con il Teatro
delle Albe e con Fanny & Alexander che ha dato risultati interessanti
sia dal punto di vista teatrale che musicale.
Credo
comunque che il teatro musicale, oltre a cercare nuovi spazi alternativi,
debba avere la forza intellettuale di avventurarsi in territori
più vasti e di confrontarsi con le altre forme artistiche.
Continuare a parlare di teatro musicale nei termini tradizionali
significherebbe isolare ancora di più la musica contemporanea,
e relegarla nella torre d'avorio nella quale è isolata
già da troppo tempo.
TORNA
SU
giugno 2000
In
Die Resurrectionis
Conversazione di Franco Masotti con Luigi Ceccarelli
Pubblicato sul catalogo generale del Ravenna Festival 2000
Puoi spiegarci la genesi di questo tuo lavoro? Il fatto di
aver lavorato su un "frammento", un objet trouvé
sonoro quasi dissepolto e comunque de-contestualizzato dalla liturgia
nella quale era inserito come ha influito sul tuo approccio compositivo?
Il
mio lavoro sul canto gregoriano, di cui In Die Resurrectionis
rappresenta il secondo "episodio" dopo Exsultet, trae
origine dall'incontro determinante con Bonifacio Baroffio. Sono
state le conversazioni con lui a farmi scoprire quanto il rapporto
tra musica e spiritualità, al di la di ogni credenza religiosa,
possa essere importante e profondo, e come oggi sia ancora possibile
un legame vitale con il canto gregoriano (ma a questo proposito
non posso che rimandare al suo scritto "Canto Gregoriano
e Musica Computerizzata", pubblicato lo scorso anno nel catalogo
della rassegna "Luce d'Oriente").
Al Conservatorio ho studiato la musica pre-polifonica e l'impressione
che ne ho sempre tratto è che quei secoli solo apparentemente
"bui" siano stati in realtà un periodo molto
stimolante e vivo per la musica, tanto che in appena tre secoli
è stata creata ex nihilo la scrittura musicale e di conseguenza
la polifonia, una svolta unica tra le varie culture del nostro
pianeta. Ma se pure mediante la polifonia la musica si è
enormemente arricchita dal punto di vista intellettuale, con l'andar
del tempo si è teso sempre più a dimenticare la
potenza fortemente emozionale e mistica della musica.
Il gregoriano mi interessa e mi affascina perché credo
rappresenti la massima espressione della spiritualità ancora
del tutto libera da "meccanismi" e sovrastrutture formali.
La mia musica scaturisce spesso a partire da una ricerca continua
del suono "primordiale", il suono che mantiene quella
possibilità incontaminata di comunicare oltre le convenzioni
ed i generi. È per questo che sento il canto gregoriano
così vicino, per la sua semplicità e potenza evocativa
allo stesso tempo.
Naturalmente all'inizio ho sperimentato una grande difficoltà
a lavorare su documenti così antichi di cui si è
persa gran parte della memoria. Quello che resta sulla carta,
nei manoscritti gregoriani, non rappresenta una indicazione precisa
di quello che costituiva la vera essenza dei canti, sono solo
indizi e tracce sparse, mentre invece la mia ambizione era quella
di creare una musica che potesse ridare origine - al giorno d'oggi
- ad un sentimento di sacralità autentico.
"Sembra
essere cosa di grande importanza e difficile da afferrare il Topos
- cioè lo spazio-luogo."
Questa è una frase di Aristotele. Cosa ha rappresentato
per te il fatto di doverti misurare con un Topos come quello di
San Vitale, uno spazio certamente non neutro, ma anzi compenetrato
di storia, simboli, e quindi necessariamente molto "influente",
"presente"? Sono stati di più i vincoli oppure
le suggestioni creative?
La
mia lunga esperienza di lavoro sullo spazio sonoro mi ha sempre
più convinto che ogni spazio possiede un suo suono particolare
e che questo stesso spazio influenza in modo sostanziale la musica.
Questa consapevolezza mi obbliga in ogni mia composizione a pensare
a come effettivamente "suonerà" un certo ambiente
e a come sarà, come "vivrà" la musica
dentro di esso.
In fin de conti anche dal punto di vista fisico lo spazio costituisce
il medium irrinunciabile (almeno fino ad oggi) tra noi e la fonte
sonora. Noi sentiamo il suono attraverso lo spazio e quindi sentiamo
esclusivamente il suono dello spazio sonoro e mai direttamente
la fonte sonora "pura", che in quanto tale non esiste.
Lo spazio influisce sull'ascolto non soltanto dal punto di vista
puramente acustico, ma, essendo la percezione un fatto globale,
l'ascolto coinvolge necessariamente anche tutti gli altri sensi
che determinano in modo fondamentale la predispozione dell'ascoltatore.
Per non parlare poi dell'influenza della memoria e storica ed
emotiva di ognuno di noi.
Quando ascoltiamo il suono di un violino (come anche un canto
gregoriano, tanto per rimanere in tema) questo suono ci evoca
anche secoli di vicende ed emozioni di generazioni e generazioni
di persone. Comporre musica non è tanto edificare una costruzione
di vibrazioni acustiche, ma costruire un mondo immaginario fatto
con la memoria dell'umanità. È anche per questo
che non ho mai usato suoni sintetici, perché credo siano
privi di storia.
Quando mi è stato proposto di creare un'opera per la basilica
di San Vitale ho pensato che questo luogo sarebbe stato uno spazio
che avrebbe molto "amplificato" questa concezione della
musica.
Ho scritto In Die Resurrectionis immaginando ogni suono immerso
nella basilica. Per essere il più possibile vicino a questo
spazio ho ascoltato prima la basilica con i suoi "suoni"
quotidiani e ho perfino ricreato in studio una simulazione di
quell'ambiente.
Tu
hai spesso lavorato con la voce, ed hai già utilizzato
in passato testi o parole "sacre". Tra l'altro Giacomo
Baroffio, che prima hai citato, sostiene che il "gregoriano
computerizzato, costruito su esecuzioni delle melodie liturgiche,
riflette quasi la loro genesi interiore, il travaglio di una preghiera
che solo a poco a poco riesce a liberarsi, che non si stanca di
ripetere incessantemente un micro passaggio melodico
"
Pur nella dimensione assolutamente "laica" del tuo comporre
cosa pensi di questo?
Come
ho detto anche prima, credo che il canto gregoriano sia rimasto
uno degli ultimi esempi nell'occidente di come la musica possa
avere una forte dimensione spirituale mantenendo una sua semplicità.
È proprio quella sua semplicità che mi permette,
come d'altra parte ha permesso a moltissima musica dei secoli
passati che ha attinto da esso a piene mani, di partire da questo
come elemento di base per costruire una architettura più
complessa e articolata. Ma a differenza dei musicisti del passato,
io ho cercato di elaborare non soltanto le melodie, ma anche la
dimensione spaziale e timbrica.
Mi
pare di capire che l'acqua, o meglio la "liquidità"
abbia una parte non secondaria in In Die Resurrectionis. Questo
ha forse qualche rapporto con il fatto che San Vitale stia a poco
a poco sprofondando nel terreno per via del fenomeno della subsidenza
(e che quindi l'acqua emerga dal sottosuolo), oppure è
semplicemente il "suono" dell'acqua ad affascinarti?
Essendo
nato e vissuto per molto tempo al mare, ho sempre considerato
l'acqua come un importante elemento vitale. In questo caso, l'ultima
parte di In Die Resurrectionis, ossia "Vidi Aquam",
mi ha fornito la preziosa occasione di rappresentare la sensazione
che ho sempre provato guardando l'orizzonte del mare: un sentimento
profondo di forza unita all'assoluta calma interiore, la sensazione
che per me meglio rappresenta la bellezza e la positività.
Ascoltando
il nastro della tua composizione mi veniva alla mente ciò
che scriveva Thomas Mann (in anni insospettabili!) nel suo Doktor
Faustus, parlando della "attuazione tecnica dell'orrore,
cioè gli effetti d'altoparlante che il compositore ha prescritto
in diversi punti e che raggiungono una mai attuata gradazione
acustica nello spazio, di modo che l'altoparlante porta alcune
cose in primo piano, mentre altre sono più sbiadite nella
lontananza". Non credo proprio che tu, come Adrian Leverkhun,
abbia fatto un patto con il diavolo, certo emerge a tratti una
violenza fonica sconvolgente, che sembra evocare orrori direttamente
dagli inferi. C'entra forse con il tema della Resurrezione (il
sepolcro
), oppure è una sorta di presenza dantesca
che aleggia (siamo a Ravenna, in fondo)? Oppure?
Molte
persone, dopo avere sentito la mia musica mi dicono di avere ascoltato,
pur nella loro bellezza, suoni terribili e angoscianti.
Rispondo sempre che la mia intenzione non è mai quella
di suscitare angoscia. Ma neanche il contrario. Credo che il sentimento
di angoscia si provi solo davanti ad eventi sconosciuti e credo
che qualsiasi musica, ascoltata senza una certa preparazione,
possa essere sempre più o meno noiosa o angosciante.
Io cerco sempre di usare i suoni nella lora grande varietà,
toccando tutte le loro possibili gradazioni. Il mio scopo, come
credo quello di tutta la musica, è quello di suscitare
emozioni. Sulla specificità dell'emozione, sulla sua positività
o negatività, credo che ognuno debba fare necessariamente
i conti con se stesso.
Nel caso della parte centrale di In Die Resurrectionis, che credo
sia quella a cui si riferiva la domanda, ho voluto accostare il
canto gregoriano del coro femminile alla voce di Giacomo Baroffio
abbassata di una ottava, ottenendo in tal modo un contrasto molto
forte. Mi sono anche ispirato al canto dei monaci tibetani, quando
producono quei loro caratteristici e così affascinanti
bordoni molto gravi per ottenere gli armonici più acuti.
E proprio dai monaci tibetani ho imparato che bisogna saper ascoltare
dentro al suono tutte le più piccole sfumature, e dentro
i suoni gravi e complessi di sfumature ce ne sono sempre di più.
Questa è una concezione che accomuna fortemente e la musica
sacra e una parte della musica elettroacustica.
Non si deve essere intimoriti dal suono, ma bisogna imparare ad
entrarci dentro e a farci pervadere interamente.
TORNA
SU
Intervista
di Susanna Persichilli a Luigi Ceccarelli
pubblicato sul n. 39 (Gennaio/febbraio 2001) della rivista "I
Fiati"
Come
si è avvicinato all'elettronica?
I
miei studi musicali sono stati molto particolari. Mi sono diplomato,
a diciannove anni, in elettronica industriale; fino a quell'età
avevo fatto il batterista in un gruppo rock e non avevo le idee
molto chiare su cosa avrei fatto da grande, ma mi piaceva molto
fare il musicista. Con queste due professionalità mi sono
iscritto in Conservatorio nella classe di musica elettronica,
senza sapere nulla della musica scritta. Nel 1973 la musica elettronica
era appena entrata in Conservatorio e c'era bisogno di nuovi allievi
interessati alla materia, per questo non ho avuto difficoltà
ad essere ammesso; oggi questo sarebbe impossibile perché
la M.E. è diventata un corso superiore e serve un altro
diploma di conservatorio per iscriversi. Così ho dovuto
studiare contemporaneamente solfeggio e composizione; pur non
conoscendo la scrittura musicale avevo evidentemente la "maturità"
giusta per fare il compositore. Dopo tre anni avevo raggiunto
il livello degli altri studenti, ma con una preparazione tecnica
riguardo all'elettroacustica molto superiore a qualsiasi altro
musicista che proveniva dal Conservatorio.
Nella
sua musica, però, sono spesso presenti richiami al passato,
al gregoriano, per esempio. Perché questo ritorno all'antico
da parte di un compositore che si comincia a interessare all'elettronica
da rockettaro?
Perché
tutto quello che facciamo oggi è comunque legato al passato.
Io penso che la musica, come tutte le arti, deve essere una sintesi
tra presente, passato e futuro.
Perché
il gregoriano e non la tradizione sette-ottocentesca?
La
prima ragione è che un artista con pretese creative deve
andare necessariamente contro il passato recente. Succede sempre,
in ogni momento della storia: i giovani vanno contro i genitori,
ma tendono a rivalutare i nonni. In estetica, ma anche nella vita
di tutti i giorni, questo succede perché per affermare
un'idea nuova e diversa bisogna andare contro quella dominante;
e allora volendo recuperare la storia si attinge al passato remoto.
La seconda ragione è che per me è assolutamente
necessario un recupero della dimensione sonora non influenzata
dall'armonia. Credo sia questa la ragione principale che mi obbliga
a staccarmi dalla musica tradizionale.
Quando ho composto La guerra dei dischi, per esempio, un pezzo
ispirato ai suoni ed al mondo della musica rock, tratto da un
romanzo di Stefano Benni, ho scoperto che quello che non potevo
usare, del rock, erano le cadenze armoniche (quarto-quinto-primo,
primo-quinto-primo), perché mi riportavano subito a quello
che rappresenta la banalità del rock. Inizialmente si è
trattato di una scelta inconscia, ma a metà lavoro mi sono
accorto che evitando l'armonia tutto il pezzo funzionava bene.
Non
ha mai pensato di occuparsi di musica strumentale?
Naturalmente
quando ero studente ho scritto vari pezzi per strumenti senza
elettronica tra cui un quartetto per archi e uno per sedici strumenti.
Poi per varie ragioni, sia estetiche che contingenti, ho deciso
di non lavorare più con la musica strumentale senza elettronica.
A me piace lavorare molto sul suono, e la musica strumentale non
mi permette questo; l'ambiente dove vengono eseguiti i concerti,
per esempio, è quasi sempre una negazione della dimensione
sonora.
Lavorando con l'elettronica, invece, ho la possibilità
di tenere in maggior considerazione la qualità del suono
e l'acustica dell'ambiente durante un concerto, e nei casi migliori
anche di modificarlo; è un'operazione molto complicata
che obbliga a un maggior lavoro, ma in genere ne vale la pena.
Molto spesso penso che sarebbe più facile fare musica strumentale,
ma non si ha mai la garanzia di un risultato globale di qualità.
Ci sono troppe variabili che non si controllano. E poi la mia
poetica parte in primo luogo dal suono.
Mi
sembra che l'attenzione allo spazio sia cambiata negli ultimi
anni...
Si,
è vero, grazie anche alla tecnologia elettroacustica i
musicisti stanno sviluppando molto interesse verso lo spazio e
l'ambiente sonoro, e questo anche in senso propriamente ecologico.
Ma questo si vede soprattutto fuori dall'Italia, dove si fa più
musica elettroacustica e dove la ricerca anche in campo artistico
viene molto stimolata e finanziata. In Italia da questo punto
di vista siamo rimasi molto indietro sia per quel che riguarda
le istituzioni che l'ambiente dei musicisti in generale (a volte
il peso della tradizione può essere un grande freno per
le nuove generazioni).
Molto spesso i compositori di musica contemporanea, quelli più
accademici (si, c'è una accademia anche per la musica d'avanguardia,
ed è una delle più insopportabili), scrivono le
note sulla carta senza alcuna cognizione del risultato acustico,
trasformando la musica in una esclusiva creazione di segni che
non ha alcun rapporto con i suoni. L'elettronica porta facilmente
superare questa mentalità. Io uso il computer perché
mi permette di lavorare direttamente sui suoni e non su segni
che rappresentano suoni e anche molto approssimativamente. In
Conservatorio ancora oggi ai futuri compositori non viene insegnata
l'arte dei suoni ma dell'arte dei segni.
Una causa molto negativa di questo è l'uso pressoché
esclusivo e indiscriminato del pianoforte nelle classi di composizione.
Il pianoforte è una macchina stupenda costruita per la
musica dell'Ottocento e del primo Novecento, concepita per sviluppare
i rapporti armonici e melodici; ma per quel che riguarda la qualità
del suono, un pianoforte al giorno d'oggi non ci serve assolutamente
a niente, soprattutto poi se è un verticale.
Credo che il pianoforte sia lo strumento che ha più ostacolato
lo sviluppo della musica negli ultimi cinquant'anni, e continua
ancora oggi a farlo... Naturalmente non ho nulla contro lo strumento
in se che invece mi sembra bellissimo, ma è l'uso che la
maggior parte dei musicisti contemporanei ne fanno.
Lei
non ha composto nulla per pianoforte?
Negli
anni 80, ispirato dalla musica di Cage ho scritto due pezzi per
pianoforte preparato, lavorando sulle possibili trasformazioni
del timbro.
E poi, a dimostrazione che il mio rapporto con questo strumento
è anche di grande amore, sto realizzando le musiche ed
il sound design per un'opera multimediale concepita insieme ai
fotografi Roberto Masotti e Silvia Lelli, e con i testi di Mara
Cantoni. Si chiama "Bianco Nero Piano Forte". Si tratta
di un'opera pensata sia come installazione che come CDRom, partendo
da immagini del pianoforte rigorosamente senza pianista; da queste
prendono spunto brevi storie, dialoghi, versi poetici o commenti
dove la dimensione fantastica si intreccia a riferimenti musicali
e letterari. L'ambientazione sonora trasforma il pianoforte in
uno strumento multidimensionale, rivelando la sua voce più
inedita e interiore e trasforma le parole scritte in infinite
sonorità in dialogo con lo strumento.
Per ora abbiamo realizzato un CD Rom di presentazione dell'opera
che presto realizzeremo in forma di installazione.
Nel 1990 ho composto anche un pezzo per flauto e pianoforte, "Aura
in Visibile", dove il pianoforte non è mai suonato
sulla tastiera, anzi, dove il pianista non tocca quasi mai lo
strumento ed il suono del flauto, per mezzo di un sistema elettromeccanico
inventato da me, mette in vibrazione l'intera cordiera.
Mi
sembra che un compositore che si occupa di musica elettronica
sia presente in maniera più attiva sulla scena dell'esecuzione...
Certo.
Con l'elettronica si possono controllare molti più parametri
della musica, che normalmente il compositore deve lasciare alla
prassi strumentale. E' una entusiasmante possibilità ma
anche un grande limite, perché ci vuole più tempo
per comporre un pezzo. I miei lavori strumentali sono composti
prima al computer e poi trascritti in partitura tradizionale.
Sono quindi costretto a fare un lavoro doppio: prima la realizzazione
del pezzo con i suoni e poi la traduzione per l'esecutore. Se
vogliamo fare un paragone con il passato è un po' come
la musica che del cinque-seicento, prima eseguita sullo strumento
e poi trascritta.
Quando
non c'era questo rigore del foglio scritto...
Nel
tempo io sono andato sempre più lontano dal foglio scritto
e compongo direttamente al computer.
E'
un altro legame con il passato remoto di cui parlavamo prima.
Sì, certamente. La scrittura tradizionale della musica
ci ha permesso di realizzare grandi capolavori; dalla fine del
'900, però, è divenuta assolutamente inadeguata
ad esprimere le idee e le concezioni di un musicista di oggi.
Come
nasce un suono?
Una
premessa: fino agli anni Ottanta la musica elettronica aveva la
pretesa di creare dei suoni dal niente, cioè direttamente
dalle macchine; le variabili del suono sono però così
tante che per ottenere musica interessante dal punto di vista
estetico occorre specificare al computer una enorme quantità
di dati, e questo diventa un lavoro troppo lungo, possibile per
un ricercatore ma non per un musicista.
I suoni delle mie opere partono sempre suoni concreti, perché
li ritengo più interessanti dal punto di vista estetico.
Non solo, ma anche e soprattutto perché i suoni concreti
hanno una "memoria".
In fondo fare musica non significa tanto produrre dei suoni, ma
vuol dire soprattutto comunicare, stimolare il rapporto tra la
nostra memoria e le cose che sono fuori di noi, tra tanti suoni
che conosciamo e riconosciamo o conosciamo solo in modo inconscio;
e questo lo possiamo fare soltanto tramite suoni naturali che
noi in qualche modo riconosciamo o perlomeno che hanno già
una relazione con mondo.
Come
si articolano, poi, questi suoni all'interno della sua composizione?
All'inizio
di una nuova composizione non so mai cosa succederà veramente
alla fine, quale sarà il risultato finale. E' come partire
per un lungo viaggio: si sa quando si parte, ma poi gli eventi
e le nuove scoperte ti portano a cambiare molti dei tuoi progetti
(a meno di non fare un viaggio organizzato, che ho sempre detestato).
Non credo, come invece succede in un famoso film di Milos Forman
su Mozart, che un compositore riesca ad immaginare nella sua mente
tutta una intera composizione. Se lo fosse questa musica sarebbe
sicuramente troppo banale. Una composizione musicale per me deve
crescere gradualmente nel tempo, lavorando sui suoni passo dopo
passo, attraverso presupposti, verifiche, errori, scoperte casuali,
disillusioni, illuminazioni. Senza una logica razionale insomma,
ma con un costante ed inarrestabile processo di crescita. Alla
fine l'oggetto è talmente complesso che non lo si può
contemplare tutto "in una volta sola". E anche per me
il solo modo per capirlo è ogni volta di riascoltarlo.
Io tendo, come molti, a cercare sempre delle idee nuove che ovviamente
non so come suonano fino a quando non si realizzano; devo scoprirle
io per primo. Non posso sapere prima cosa succederà.
Il lavoro al computer in questo mi aiuta molto perché la
possibilità di rappresentazione dei suoni in immagini mi
dà la possibilità di vedere in un colpo d'occhio
solo, il pezzo intero.
Riesce
a "sentire" il pezzo guardandolo?
Questo
no; la rappresentazione visiva del suono che da il computer è
comunque una convenzione che non si può tradurre in sensazione
uditiva, così come qualsiasi scrittura della musica non
si può istantaneamente tradurre in suono. Una immagine
globale del pezzo non può rendere la sensazione precisa
del pezzo, però mi aiuta nel lavoro, è uno strumento
del mestiere molto utile.
Salvatore Sciarrino, per esempio, che ha un modo di comporre apparentemente
molto lontano dal mondo dei computer, lavora su schemi formali
che rappresentano i suoi pezzi e che lui visualizza graficamente
quasi esattamente come io li visualizzo sul mio computer. Si tratta
di schemi molto interessanti che danno la visione globale del
suo pezzo, esattamente come faccio io.
Nella
sua musica è presente una sorta di suono di fondo che si
percepisce solo prestandogli attenzione. Qual è il motivo
di questa presenza?
Questo
discorso si rifà alla concezione dello spazio sonoro pensato
come un ambiente che ci circonda e che è sempre presente
nelle mie composizioni. Quando penso *a un pezzo di musica, considero
non solo gli elementi principali, ma anche l'ambiente in cui i
suoni si trovano. Immagino -parlo molto schematicamente- almeno
due livelli: la figura principale e lo sfondo. Lo sfondo non è
quasi mai percepito chiaramente, però contribuisce creare
l'atmosfera generale; lo sfondo dà significato all'immagine,
al significato emozionale, soprattutto. E' una regola molto importante
della percezione.
Lei
ha collaborato con molti scrittori. Che tipo di rapporto si viene
a instaurare tra autore dei testi e musicista?
Il
rapporto con gli scrittori per me è nato sempre dall'emozione
che ho provato leggendo i loro testi, e dalla sensazione di condividere
con loro un mondo in comune. La scelta dell'argomento, delle storie,
è venuto sempre in un secondo momento. Poi dal punto di
vista operativo non c'è quasi mai stato un rapporto di
stretta collaborazione, in fondo scrivere testi e comporre suoni
sono mestieri tecnicamente molto lontani.
In genere io inizio a lavorare quando il testo è terminato,
le correzioni in seguito sono solo cose di poco conto. In molti
casi scelgo un testo già fatto, come nel caso della già
citata"Guerra dei Dischi". Ma anche quando il testo
viene scritto con l'intenzione precisa di farne un'opera sonora,
come per esempio i testi di Valeri Magrelli, non mai pensato di
discutere preventivamente, se non in modo molto generico, quello
che il testo doveva rappresentare. E' fondamentale per me non
porre nessun vincolo allo scrittore, come anche che lui non ponga
vincoli a me, e per questo serve una fiducia reciproca. Quello
che cerco sempre di fare è di trasportare il mondo della
parola scritta nel mondo dei suoni, rispettando al massimo l'idea
del testo, e di arrivare con la musica e l'uso della parola "parlata"
ad una maggiore profondità della comunicazione.
Nelle
sue opere vocali c'è una grande attenzione alla voce parlata,
che viene manipolata in modo molto affascinante. Che procedimenti
usa per ottenere questi effetti?
Innanzi
tutto è fondamentale avere a disposizione un'eccellente
materia prima: le voci. Ripeto sempre ai miei allievi che per
fare un buon pezzo la prima cosa, la più importante e anche
la più difficile, è quella di partire da materiali
di qualità e per questo occorre lavorare con interpreti
molto bravi. Il lavoro di registrazione della voce è molto
lungo. Per questo mi servono molte ore di lavoro con gli attori,
per ottenere da loro il carattere e l'energia giusta.
Poi c'è una fase di scelta del materiale, di ascolto e
di catalogazione, forse è la parte più lunga e noiosa,
ma fondamentale per conoscere alla perfezione il materiale di
cui si dispone. A volte per un pezzo di pochi minuti ascolto ore
e ore di materiale.
La fase di elaborazione al computer è la più creativa
e quella che mi diverte di più. Riesco spesso a cambiare
le voci, non solo nel timbro, ma anche nell'inflessione ed nel
senso delle frasi. Che procedimenti uso per ottenere questo? Potrei
elencare decine di software che danno molte possibilità,
ma la cosa più importante è provare e riprovare
molto ed avere una direzione precisa verso la quale andare. Come
per qualsiasi artigiano, più dell'utensile che usi è
la tua abilità a creare che conta.
Insieme
all'interesse per il teatro è evidente, dal suo catalogo,
una passione per la danza che si sviluppa con la collaborazione
con Lucia Latour...
La
prima volta che sono venuto a Roma è stata nel 1979 per
fare uno spettacolo con il "Gruppo di Lavoro Intercodice
ALTRO". In questo gruppo c'erano pittori, danzatori, fotografi,
grafici, musicisti (tanti artisti appartenenti a diversi campi
artistici), che lavoravano insieme per realizzare una cosa che
si chiamava teatro, ma era anche molto di più. Il gruppo
era guidato dal pittore Achille Perilli e Lucia Latour era una
delle danzatrici del gruppo e una delle ideatrici principali.
Questa esperienza è stata per me così straordinaria
che ho deciso di stabilirmi a Roma, dove ancora abito.
In seguito il gruppo Altro si è sciolto ed è nata
la compagnia di danza Altroteatro diretta da Lucia Latour. Con
lei ho continuato a lavorare fino ai primi anni '90 ed abbiamo
realizzato insieme una decina di spettacoli, alcuni dei quali
hanno avuto un grande successo, come per esempio "Anihccam",
spettacolo di danza ispirato a Fortunato Depero e rappresentato
anche in varie città Europee.
Sono tuttora molto legato a questa esperienza che considero come
la più importante della mia attività di musicista,
e anche quella che ha segnato tutto il mio lavoro in seguito.
Da "Altro" ho imparato cose molto importanti come la
rigorosità e la precisione del lavoro, l'apertura mentale
verso il mondo, la consapevolezza che la musica non deve essere
fatta per l'ambiente dei musicisti (come l'architettura non è
fatta per gli architetti, e così via) ma per tutta la cultura
nella sua totalità.
La
sua musica sembra quindi essere strettamente legata all'elemento
visivo...
Credo
che la dimensione visiva sia importante per la musica, perché,
volenti o nolenti, è una dimensione ineliminabile della
percezione. Non possiamo improvvisamente decidere di ascoltare
astraendoci da tutti gli altri sensi. Anche chiudendo gli occhi
abbiamo sempre una percezione visiva, spaziale, tattile che condiziona
fortemente l'ascolto. E poi la percezione visiva è molto
importante nell'ascolto.
Mi sembra che la sempre maggior consapevolezza delle leggi della
natura ci porti sempre più verso linguaggi che considerano
la percezione nella sua totalità. Per questo sono molto
attratto dal teatro e dalla multimedialità. Non per niente
la forma d'arte che più è andata in questa direzione,
è diventata la più importante di questo secolo.
Parlo del cinema.
Con
Altroteatro mi occupavo principalmente di musica ma non solo.
Discutevamo sempre in gruppo delle varie esigenze creative e funzionali,
ed il livello progettuale era un momento di discussione sull'aspetto
globale di uno spettacolo. Un'esperienza che mi ha formato molto
e che mi accorgo ora non avrei avuto restando esclusivamente nel
campo musicale.
In questo periodo mi sono occupato anche della realizzazione di
multivisioni che facevano da scenografia alla danza, costruendo
al computer la partitura di sincronizzazione tra suoni ed immagini.
In seguito, per alcune delle mie opere ho pensato personalmente
anche una ambientazione visiva, che è parte integrante
dell'idea musicale, come per esempio "Tupac Amaru" dove
un'attrice è ripresa in diretta da una telecamera e la
sua immagine viene elaborata elettronicamente.
Ma ancora preferisco lavorare collaborazione con artisti visivi.
Credo di conoscere l'arte visiva abbastanza da capire quali sono
i miei limiti, e allora cerco sempre collaborazioni stimolanti.
Lei
ha composto un pezzo, Respiri, utilizzando un corno modificato.
Ce ne vuole parlare?
Quello
che mi ha spinto a scrivere un pezzo per corno è proprio
questo stretto rapporto tra uomo e macchina, che nel corno raggiunge
uno dei livelli massimi, essendo il corno moderno lo strumento
più evoluto della famiglia degli ottoni. In uno strumento
a fiato è il respiro che genera il suono. Soltanto dopo
che l'esecutore ha prodotto il suono, lo si può modificare
con lo strumento tramite una complessa tecnica che combina soffio,
tensione del labbro, movimento della lingua e delle dita.
Respiri è un pezzo per suoni di corno: un solista dal vivo
suona un corno preparato e amplificato con vari microfoni. Altri
suoni di corno, registrati ed elaborati precedentemente in studio,
vengono diffusi nella spazio da un sistema di dieci altoparlanti
indipendenti.
Come
è stato modificato lo strumento?
Al
corno sono state applicate altre tre campane indipendenti, con
relativo canneggio, che permettessero all'esecutore di decidere
liberamente a quale campana trasmettere il suono generato. I tre
cilindri dei pistoni del corno che servono a variare la lunghezza
del canneggio in fa, e quindi l'intonazione, vengono svitati e
aperti all'estremità inferiore (quelli del canneggio in
si bemolle restano intatti). A questi vengono così fissati
tre tubi di plastica di sezione adattabile alla misura del pistone
che svolgono la funzione di canneggi supplementari e terminano
all'altra estremità con un imbuto. Quando il cornista suona
premendo un pistone si apre il canneggio relativo e il suono non
esce più dalla campana originaria, ma dal tubo e dall'imbuto
corrispondente.
L'intonazione dei suoni così prodotti non cambia più
come prima ma resta approssimativamente sulla la nota armonica
di fa, mentre il timbro cambia a seconda delle dimensioni del
tubo e soprattutto della forma dell'imbuto (ovviamente il suono
che esce dalle nuove campane è di qualità inferiore
di quello del corno normale).
Questo tipo di preparazione è stato ripreso da una composizione
dei primi anni ottanta del compositore canadese David Keane.
Con questa tecnica si possono ottenere anche sequenze di suoni
ribattuti a una velocità normalmente impossibile per lo
strumento, eseguendo una specie di tremolo tra un imbuto amplificato
ed uno no.
In Respiri una grande importanza è stata data al timbro,
sia nella parte dal vivo che in quella pre-registrata. Il timbro
varia dal suono tipico dello strumento ai suoni più inusuali
introdotti dalla musica del '900.
Il
corno compare ancora ne L'Isola di Alcina, dove viene accostato
ad una "voce romagnola". Di cosa si tratta?
"L'isola
di Alcina" è uno spettacolo del Teatro delle Albe
di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari con il testo di Nevio
Spadoni in dialetto romagnolo. E' la rappresentazione dell'"instupidimento"
di Alcina, maga/guardiana di cani della campagna romagnola, ispirata
all'Alcina dell'Orlando Furioso di Ariosto.
Lo spettacolo è stato prodotto dalla Biennale di Venezia
e dal Ravenna Festival , ed è stato rappresentato per la
prima volta a Venezia nel maggio 2000 e sarà rappresentato
in vari teatri nelle prossime stagioni.
"L'isola di Alcina" è un lavoro teatrale, ed
ha come sottotitolo "concerto per corno e voce romagnola"
che ne rivela la particolarità . Si tratta realmente di
un'opera musicale con voce solista, e la musica, sempre presente,
è appunto realizzata con gli stessi suoni di corno che
ho utilizzato per "Respiri". La voce principale invece
è di Ermanna Montanari, straordinaria attrice, che usa
la voce in una tale varietà di suoni e timbri come non
avevo mai sentito prima.
Tra l'altro abbiamo anche realizzato un CD del lavoro uscito in
questi giorni.
Parliamo
di un'altra composizione per fiati: Birds, che ho trovato
simile al pezzo per clarinetto basso di Reich.
New
York Counterpoint è una sovrapposizione di melodie che
variano lentamente nel tempo sovrapponendosi con leggere differenze.
Nel mio pezzo per clarinetto basso al contrario le variazioni
sono a blocchi e a sovrapporsi sono singoli suoni. Il lavoro di
Reich potrebbe quasi essere eseguito da altri strumenti, in quanto
l'idea musicale è legata principalmente alla variazione
graduale della melodia, il mio invece è pensato esplicitamente
per i suoni del clarinetto basso, e non potrebbe essere eseguito
mai con un sax, per esempio, o con un clarinetto in si bemolle;
cambierebbe tutta la natura del pezzo. In comune i due pezzi hanno
la pulsazione ritmica e il timbro inconfondibile del clarinetto
basso. Sono somiglianze quasi superficiali.
Conosco benissimo il pezzo di Reich, è un esercizio che
spesso fanno i miei allievi, a cui chiedo di rifare la parte del
nastro su un registratore multipista. E' un lavoro apparentemente
facile, ma che richiede molta precisione; sincronizzare tutte
le piste è un problema serio, perché se non si è
precisissimi sin dall'inizio ci si accorge a metà che non
controlla più niente e deve ricominciare tutto da capo.
I
suoni dello strumento (rumori di chiavi, respiri), presenti spesso
nelle sue composizioni, acquistano una autonomia propria, un fascino
indipendente.
Lavorando
con il computer è possibile considerare questi suoni come
facenti parte della creazione; nella musica strumentale questo
non è possibile perché ovviamente sono considerati
suoni accessori e non utilizzabili. Al computer posso tranquillamente
isolare questi suoni e considerarli come indipendenti. Nel pezzo
per sassofono, per esempio, ho composto separatamente i suoni
dell'ancia e quelli delle chiavi; sono due linee completamente
diverse*. E' venuta fuori una partitura completamente diversa
per suoni e per chiavi.
Come
è nato il lavoro all'Edison studio?
L'Edison
studio è una associazione nata insieme ad altri compositori:
Alessandro Cipriani, Fabio Cifariello Ciardi e Mauro Cardi. Lo
studio è nato più o meno quattro anni fa con l'idea
di costruire un laboratorio dove scambiarci le conoscenze tecniche,
idee, e dove poter produrre i nostri pezzi e *di altri compositori
esterni. Nel tempo ci siamo trasformati in un gruppo di consulenza:
ognuno di noi lavora a casa, ognuno di noi ha lo stesso studio
replicato per quattro, con le stesse apparecchiature. In questo
modo possiamo scambiarci dati, software, suoni, competenze. Non
abbiamo più l'idea dello studio tradizionale, ma di quattro
piccole isole che lavorano insieme dal punto di vista tecnico.
Ora stiamo cominciando un lavoro di aggiornamento del sito per
dare a tutti la possibilità di prendere dei suoni che possono
servire per un uso generale e per inserire i nostri pezzi di musica.
Con
quali altri centri collabora?
Con
il CRM, a Roma, con lo studio Agon, a Milano, dove è stato
fatto il pezzo per corno; poi molto spesso al'Imeb, a Bourges,
uno dei più grandi centri francesi; dal quale negli ultimi
quattro anni ho avuto tre commissioni e tre pezzi. Nel mese di
marzo di solito sono lì.
Diventa
molto difficile, senza una preparazione scientifica, affrontare
la musica al computer?
E'
una questione di forma mentis, bisogna avere le basi di una mentalità
scientifica. Per rappresentare un suono è importante sapere
cos'è una frequenza, una frequenza, sapere interpretare
i diagrammi.
All'istituto tecnico, tanti anni fa, non capivo a cosa mi potesse
servire quello studio. Non sono stato uno studente modello, però
mi sono accorto della differenza fondamentale tra la mia mentalità
e quella di un allievo di conservatorio.
Forse
il problema è lo stesso di chi non impara sin da giovane
e suonare uno strumento. Dopo i vent'anni diventa difficile.
Sì;
arrivati a una certa età non si acquisiscono più
tanto facilmente gli automatismi, diventa difficile fare propria
una certa mentalità, padroneggiare una tecnica senza pensarci,
lasciando la mente sufficientemente libera per i problemi musicali.
Fare musica al computer è una attività complessa,
ma in fondo non più di quella di scrivere musica tradizionale,
alla quale però siamo abituati da secoli. Per me è
molto più semplice e immediato usare il sistema di rappresentazione
cartesiana invece del pentagramma. Ho sempre scritto la musica
così, anche quando ero studente: a parte i corali o le
armonizzazioni, per esempio, i miei pezzi erano sempre scritti
su carta millimetrata. Comunque io cerco di non pensare mai alla
scrittura della musica, uso la notazione soltanto come mezzo;
cerco di lavorare direttamente sul suono e di ascoltare con le
orecchie e non con gli occhi.
Quanto
riascolta un suo pezzo?
Quando
devo realizzare un master per un disco devo riascoltare un pezzo
per centinaia e centinaio di volte perché in un disco anche
il più piccolo errore si ripeterebbe poi ogni volta che
si riascolta. Per questo sono un perfezionista. Io dico che il
pezzo non è finito fino a quando non arrivo a odiarlo,
fin quando non lo sopporto più. Poi non riascolto mai più
i miei dischi una volta finiti. Un pezzo stampato su disco è
come se non fosse più per me, ma per gli altri.
Invece in concerto, dal vivo, ogni volta è una emozione
vera, ogni volta mi sembra un miracolo che si ripete.
TORNA
SU
|