Susanna
Persichilli - Compositori: Intervista a Fabio Cifariello Ciardi
I
Fiati, V, n.33, dicembre 99-gennaio 2000
Anna Cepollaro - Le vie della percezione
Radiocorriere TV, 5 dicembre 2000
Giulio D'Angelo - Intervista
Musica e Scuola VII, n°22 1993
Susanna Persichilli
Compositori: Intervista a Fabio Cifariello Ciardi
Perché
ha scelto il termine "fragile" per definire la sua musica?
Ho
parlato di musica "fragile" nel mio saggio Sentieri
convergenti? Musica e memoria ai limiti della costellazione postmoderna.
Il termine parte dalla considerazione che la gravità dei
problemi del compositore italiano è testimoniata emblematicamente
già a partire dalla difficile definizione della propria
musica. Oggi ogni aggettivo associato alla parola "musica"
sembra destinato solo a fomentare critiche: nel chiamarla "colta",
"alta", "d'arte" si provoca ormai stizza per
l'implicito giudizio di valore troppo spesso confutabile; "d'avanguardia",
"nuova", "contemporanea" sono qualità
temporali condivise da musiche troppo diverse fra loro (il Rap
è meno contemporaneo di Berio?). Le rimanenti possibilità
non sono troppe: rimane quella di un plurale generico, ma realistico
(musica fra le "musiche contemporanee"); quella
di una pacifica accettazione degli aggettivi storici ("contemporanea",
"colta", "nuova") e quella della definizione
per difetto (musica "pesante", musica "fragile").
Il saggio mirava a dimostrare, fra le altre cose, la positività
di una tale fragilità. Ovvero: il termine fragile rimanda
a due concetti: quello di delicatezza (qualcosa di fragile si
distrugge facilmente), e quello di preziosità (qualcosa
di prezioso, spesso, è anche molto fragile). Questi aspetti
possono riguardare da vicino le musiche d'oggi; musiche fragili
perché "scomode" da ascoltare, emarginate, ma
complesse, ricche e quindi anche orgogliose di mantenere una loro
fragilità intesa come preziosità, come valore.
Non
trova che però ci sia una discrepanza tra l'ideale di chi
compone e il pensiero del pubblico che ascolta?
La discrepanza è spesso una distanza che riguarda la funzione
e il senso della musica: c'è uno iato naturale e ineliminabile
tra ciò che un brano è per chi lo ha composto e
ciò che diventa per il pubblico che lo ascolta. L'esperienza
dell'ascolto implica una continua e personale definizione e ridefinizione
di aspettative che emergono nel momento in cui il suono entra
in contatto con le nostre memorie, personali e condivise. E' un
processo più o meno conscio che si articola secondo strategie
mutevoli e personali: personali intanto perché c'è
chi, ad esempio, tende per lo più a seguire la macroforma
e chi si lascia andare invece ad un ascolto "bergsoniano",
fatto di istanti non collegati fra loro; strategie mutevoli perché
influenzate da un'infinità di fattori legati al tempo,
all'umore, al momento del giorno. Personalmente quando accendo
la radio la mattina, mentre preparo la colazione, chiedo alla
musica cose in parte diverse da quelle di cui ho bisogno la sera
quando mi siedo in una sala da concerto.
In ogni caso l'esperienza musicale si lega spesso alla possibilità
o alla capacità dell'ascoltatore di rimanere attento, curioso,
e di azzerare allo stesso tempo le aspettative. Non è certo
facile, specie se si è poco "educati" all'ascolto.
A questo proposito ho in mente una folle ma possibile lezione
di musica: si esce all'esterno, in un parco o anche in mezzo al
traffico e si ascolta il mondo, come se fosse una sinfonia: i
temi ricorrenti, i contrappunti fra materiali sonori diversi,
le interruzioni, i passaggi graduali e così via. Questo
interrogarsi sulla natura "musicale" del paesaggio che
ci circonda può rivelarsi estremamente utile per definire
delle categorie di pensiero agili, flessibili, da poter poi utilizzare
durante l'ascolto di un brano anche molto complesso.
Forse
anche in passato ci sono state delle corrispondenze tra i suoni
della natura e nascita della musica...
E' inevitabile, le nostre orecchie sono sempre le stesse. Ma non
è il riferirsi più o meno alla natura che conta:
nel momento in cui si riesce a sentire tutto ciò che si
è sempre ignorato in termini musicali, allora uno suono
precedentemente ignorato, insignificante e quindi incompreso può
"esplodere" nel cervello - in termini di esplosione
dei possibili significati. Ma attenzione, praticando con costanza
tali "esplosioni" si può poi anche correre il
rischio di apprezzare un concerto di musica contemporanea o di
musica elettronica!
Di
solito invece siamo colpiti da ciò che già conosciamo...
Non
sempre. La colpa, si potrebbe dire, è di Adorno, responsabile
di un forte irrigidimento riguardo al sentiero che conduce alla
comprensione della musica. Semplificando di molto il pensiero
del filosofo in A proposito di pedagogia musicale (in Dissonanze,
ed. Feltrinelli): se non si è in grado di cogliere gli
aspetti squisitamente costruttivi di un brano attraverso un'ascolto
analitico non si può affermare di aver "capito la
musica". Se così è nella maggior parte dei
casi ritengo di non capire la musica, neanche la mia. Non mi vergogno
di dire che se da un lato sono capace di seguire la forma, il
percorso armonico e tematico di una sinfonia, di un quartetto,
una tale ascolto spesso mi annoia profondamente, non mi da' alcun
piacere. Preferisco invece abbandonarmi al flusso sonoro, cercando
di galleggiare in un mare d'informazione che tenta di sommergermi;
ma senza ansia, anche quando per qualche secondo mi ritrovo completamente
immerso e incapace di orientarmi nei suoni che mi circondano.
Lasciamoci travolgere dal suono! Sentiamoci liberi e legittimati
a collegare il suono con qualsiasi cosa musicale o extramusicale
che sia: maggiori sono le attivazioni di parti del nostro cervello
- non importa quali - maggiore è la nostra comprensione.
Il pretendere di imporre quali conoscenze sia "giusto"
attivare per arrivare ad una forma riconosciuta di "comprensione"
è insostenibile e lascia trasparire una rigidità
sottilmente e perfidamente "borghese" oltre che una
fede in un'unica "verità" nell'esperienza dell'ascolto
tutta da dimostrare.
Anche
perché secondo questo ragionamento dovrebbe andare ai concerti
solo chi ha studiato musica...
Appunto, è importante riuscire ad essere totalmente aperti
di fronte all'esperienza musicale per lasciare che qualsiasi suono
sia in messo in grado di attivare ogni possibile parte del nostro
essere. In questo senso, ad esempio, un'arte può aprire
un accesso alla comprensione di un'altra arte: personalmente emozionandomi
di fronte ad un quadro di Kandinskij già mi predispongo
positivamente all'ascolto di una musica complessa e altrettanto
astratta.
Così
viene attivato il cervello...
Sì, perché a quel punto mi ritrovo ricettivo, curioso.
Gli ascoltatori curiosi sono gli unici ascoltatori di cui mi occupo.
Mi spiego: finché non ci si ribella alla passività
dell'ascoltatore non si può fare altro che dibattersi in
modo più o meno maldestro entro i termini di un dizionario
musicale limitato e limitante fondato su clichets consunti dalla
storia e dall'uso. Amo le poetiche complesse e ritengo eticamente
necessaria la ricerca di strategie sempre più efficaci
per scuotere l'ascoltatore passivo, per attivare la sua curiosità
e la sua ricettività.
Che
è la cosa più importante...
Il mio obiettivo è ritrovare, anche solo per qualche istante,
l'ascoltatore impegnato a riflettere su a ciò che ha appena
finito di ascoltare; non chiedo di più... Ma è già
molto, visto che il fermarsi a pensare è un'attività
tendenzialmente negata dall'organizzazione del mondo in cui viviamo.
Siamo vittime distratte di ondate istantanee d'informazione confezionata
per sovrapporsi e cancellare il più rapidamente possibile
altra informazione appena recepita e non certo elaborata a fondo.
Il momento della riflessione è quindi un momento raro,
prezioso, fragile, carico di valore.
E'
proprio catturando l'attenzione che le cose si imprimono nel nostro
cervello...
Certamente, ma attenzione: non credo ad assunti neoromantici o
neominimali che comportino una brutale regressione su molte delle
dimensioni che definiscono il linguaggio musicale. Non sento il
bisogno di rinunciare, ma di meglio organizzare e comprendere
ciò che ho a disposizione. La rinuncia come garanzia di
un aumento d'intelligibilità poi trovo sia un'atteggiamento
esteticamente deprecabile. Siamo così poco consapevoli
dei meccanismi che attiviamo nell'ascoltatore nel momento in cui
gettiamo un suono nelle sue orecchie che è lì che
mi sembra di dover cercare.
Cosa
pensa, allora, quando compone?
Di solito parto da una idea generale e da alcune idee particolari
e meno astratte, in qualche modo già agganciate all'idea
generale. Entrambe possono essere più o meno legate ad
un materiale musicale.
Ad esempio durante il mio soggiorno all'IRCAM, nel 1991, avevo
ampiamente approfondito l'estetica e gli strumenti concettuali
della musica spettrale (quella di Murail, Grisey, Dufour) ed ero
curioso di inserire l'esplorazione del sottile confine tra timbro
e armonia nel mio lavoro. In Mirrorshades II per orchestra,
scritto nel 1992, ho per così dire appagato la mia curiosità
derivando la gran parte del materiale armonico del lavoro direttamente
da alcuni suoni di timpano precedentemente registrati ed analizzati
al computer; il resto del materiale cresceva e si alimentava come
un muschio, con questo ricco accordo/timbro.
In altri casi invece l'idea generale ha riguardato un certo tipo
di espressività. Attualmente sto lavorando ad un concerto
per oboe e orchestra commissionato dell'Orchestra Regionale del
Lazio. In questo caso mi interessa approfondire una potenziale
aggressività dell'oboe molto vicina alla chitarra elettrica
del rock più genuino. Il piglio aggressivo di Jimmy Hendrix
trasferito su una delicata ancia doppia
una bella sfida,
non trova? L'idea di una distorsione "elettrica" nata
dalla sovrapposizione "selvaggia" di parziali, armonici
e non, ovviamente, ha poi la sua ricaduta anche nel trattamento
dell'orchestra.
Non
si pone il problema di chi è l'ascoltatore e di cosa possa
interessarlo...
No, o almeno non ne faccio una questione in grado di stravolgere
i miei progetti estetici. Mi interrogo invece sui possibili livelli
di interpretazione che si rendono disponibili all'ascoltatore.
Penso a Umberto Eco che nelle postille a Il Nome della Rosa
afferma che scrivere un romanzo sia "una faccenda cosmologica":
l'autore costruisce un mondo che può essere esplorato dal
lettore secondo sentieri diversi e infiniti. In quel caso si poteva
oscillare liberamente tra il romanzo storico, l'intreccio poliziesco,
il saggio sulla vita religiosa del Medioevo. Un affascinante corollario
di tale approccio è che una volta attivata una polifonia
possibile di percorsi interpretativi diversi, si assiste ad una
proliferazione, spontanea e incontrollabile, di percorsi spesso
assolutamente non previsti o immaginabili dallo stesso autore.
Per tornare al problema dell'ascoltatore: utilizzando la metafora
pubblicitaria potrei affermare che non smetto di produrre ciò
che non incontra rapidamente i desideri del consumatore, ma tendo
a creare prodotti multifunzionali, in cui i "doppi e tripli
fondi" anche se non svelati dal primo ascolto, possano comunque
risultare intuibili. In sintesi, mi interessa creare "oggetti"
che si rendono disponibili su piani diversi.
Quindi
anche a persone diverse
Certamente,
ognuno sceglie il suo piano. Nel lavoro compositivo penso naturalmente
ad una serie di ascoltatori "ideali", ma è solo
l'inizio di un processo che una volta avviato genera autonomamente
sentieri e interpretazioni possibili. L'importante è preservare
una onesta autenticità visto che in un una pagina l'autore
getta inevitabilmente se stesso, che lo voglia o no. L'esperienza
creativa è per me una vera "maternità":
alla fine nasce qualcosa che mi assomiglia e che gradualmente
- interpretazione dopo interpretazione, esecuzione dopo esecuzione
- impara a camminare con le proprie gambe indipendentemente dai
miei desideri.
D'altronde credo che ciò valga un po' per tutti: più
si conosce un compositore più ci si accorge come quella
determinata persona, essendo così com'è, non poteva
che scrivere i pezzi che scrive.
Se
riconosciamo una persona nella sua musica significa forse che
quest'ultima ha il suo stile...
Non è solo una questione di stile né di qualità
musicale. Spesso non riesco esplicitare gli elementi di questa
comunanza tra la musica e individuo che la crea, eppure la percezione
di un filo rosso impalpabile rimane forte.
Tante
parole e tanta fatica poi la musica di chi compone può
arrivare a chiunque e in momenti qualsiasi della giornata...
Non vale la pena di scandalizzarsi per questo. L'accesso ad un
opera dovrebbe essere assolutamente libero, in qualche modo consapevole,
ma libero. Amo vivere a Roma, ad esempio, anche perché
i ruderi romani offrono un accesso spesso libero e democratico:
sia all'intenditore che ne coglie subito il valore storico, sia
al turista distratto che ne scopre la bellezza dopo averlo utilizzato
"fisicamente" per sedersi e mangiare un panino.
Sì,
ma l'arte è un prodotto che dà piacere al pubblico
mentre crea sofferenze in chi la produce...
Be' la situazione non è poi così drammatica, altrimenti
perché insistere. Certo, c'è un impoverimento fisiologico
dell'oggetto nelle varie fasi in cui l'opera attraversa il mercato
e questo sì che crea sofferenza in chi crea. L'universo
creato dal compositore è talvolta articolato e complesso
ed è talvolta triste vederselo inscatolato nelle poche
righe superficiali di una recensione o nei commenti distratti
di ascoltatori passivi. Ma è una fase o, se si vuole, un
rischio inevitabile. Quando mi accorgo che l'universo creato dalla
mia musica riesce ad esplodere in qualche modo nella mente di
chi l'ascolta allora le sofferenze si annullano e mi rendo conto
di fare il più bel mestiere del mondo.
Forse
il problema nasce dal fatto che chi compone dà in pasto
al pubblico una grande parte di se stesso...
L'esperienza creativa è per me comunque un'esperienza vitale.
In questo senso il comporre è per me un atto beatamente
egoistico che nasce dal bisogno di esprimere me stesso. Ovviamente
ciò non mi appaga in quanto sfogo creativo, ma solo nella
misura in cui la mia espressione entra in contatto e mi connette
con il mondo. E in questo connettersi con il mondo non è
facile mantenere l'onesta autenticità a cui accennavo prima
tra arrivisti ed emarginati cronici.
Sulla
memoria...
Sono partito da alcune esperienze personali. Quando sedicenne
mi avvicinavo ai primi concerti di musica contemporanea rimanevo
spesso assolutamente disorientato, come la maggior parte dei miei
coetanei, credo. Poi successe qualcosa. Mi ricordo, durante un
saggio di allievi di Donatoni al glorioso auditorium RAI del foro
italico, di un brano - non ricordo più di chi - in cui
fra la fitta e incompresa nebbia di materiali, codici e processi
vari ad un certo punto emergeva un qualcosa che ricordava un tema
di una fuga di Bach. Rimasi estremamente colpito dal modo in cui
avevo reagito di fronte a questa improvvisa trasformazione semantica
del materiale musicale: nel momento in cui avevo percepito il
frammento di Bach, che metaforicamente - ma anche nella mia realtà
d'ascolto - emergeva dalla nebbia del rimanente materiale, immediatamente
l'intero brano mi si rivelava con una "profondità
prospettica" inaspettata; tutto ciò che prima mi arrivava
espressivamente schiacciato su di una dimensione piatta e monocroma,
acquistava ora colore e visibilità, le "nebbie"
venivano ad essere paradossalmente caratterizzate e chiarite proprio
dall'elemento bachiano. L'esperienza rimase un fatto isolato e
in parte incompreso fino a quando un amico e compositore, Nicola
Bernardini, mi fece sentire il Primo Concerto Grosso di Schnittke
per due violini, clavicembalo e pianoforte su nastro magnetico.
Schnittke riduceva a brandelli e ricostruiva con leggerezza materiali
che oscillavano spudoratamente tra le trame di Ligeti, le cellule
motiviche di Vivaldi e il ritmo del tango, con una scrittura per
archi estremamente raffinata. Rimasi sconvolto: ciò che
più mi colpiva è che ogni nota mi sembrava meravigliosamente
necessaria al tutto; un'impressione ben diversa da quella suscitata
da altri brani di musica contemporanea. Poco dopo ebbi la prima
occasione vera e propria per mettere in pratica qualcosa di ciò
che gradualmente stavo maturando con Il gioco delle gabbie
per clavicembalo. Ero convinto, con la fermezza dell'inesperienza,
che un materiale musicale diciamo così "allo stato
grezzo" non contenesse affatto lo spunto per il suo possibile
sviluppo; questo dipendeva invece dalla scelta personale del compositore
che, articolandolo, in un modo o nell'altro vi poteva sovrapporre
"connotazioni" anche lontane fra loro.
Da questa tesi era nata una sorta di sfida: ad un canone popolare
francese, "Vent fin", già di per sé ben
connotato, ho sovrapposto tre insiemi di regole che trasformavano
il materiale iniziale rispettivamente in una trama musicale atonale
quasi bartokiana a forte carattere ritmico, in un materiale vicino
al pianismo jazz di Cecyl Taylor e in una serie di gesti clavicembalistici
piuttosto tonali nello stile di François Couperin.
L'evoluzione del pezzo è una sorta di possibile comunicazione
fra questi tre mondi che di per sé tendevano a configurarsi
come tre gabbie nelle quali lasciar cascare, giocando, il materiale
musicale di partenza. Tengo ancora molto a questo pezzo anche
perché alcune tematiche come ad esempio il senso di imprecisabile
stordimento che accompagna il rapido passaggio fra mondi sonori
apparentemente diversi e lontani è un'emozione che mi è
rimasta molto cara.
Domanda
(un'altra caratteristica della sua musica strumentale è
una decisa attenzione alla teatralità dello strumentista)
Sono
convinto che un musicista sul palcoscenico sia molto più
vicino all'attore di quanto comunemente non si pensi. Questa considerazione
è alla base di almeno due lavori per strumenti a fiato.
Il primo è un quintetto a fiati quasi alla Kagel, intitolato
emblematicamente Atto unico in cui la diversità
di timbro fra gli strumenti - già di per sé molto
evidente - facilità la creazione di uno scenario surreale
in cui si muovono, musicalmente e fisicamente, cinque strumentisti/attori.
L'altro è Il Metagramma, per un organico di undici
strumenti con l'oboe concertante, scritto durante il primo anno
di perfezionamento all'Accademia di Santa Cecilia con Franco Donatoni.
Il metagramma è un gioco nel quale si ottengono parole
differenti sostituendo soltanto una vocale. Il mio metagramma
voleva essere una pantomima in cui l'oboe si dibatteva tra piccole
"sostituzioni" che repentinamente e instabilmente spostavano
l'attenzione dell'ascoltatore dall'esotismo di Caravan
di Duke Ellington a quello di maniera della Shéhérazade
di Rimskij-Korsakov, dal languore del valzer dei Fiori da Il
Lago dei cigni di Ciaikovskij alla grinta di Smoke on the
water dei Deep Purple.
Credo che i collegamenti tra questi frammenti vengano attivati
inconsciamente dal nostro cervello...
Sta di fatto che notavo divertito come all'estrema distanza semantica
tra i frammenti si contrapponesse la loro estrema prossimità
strutturale: tutti i frammenti erano difatti caratterizzati da
un comune scheletro melodico di quarta discendente e terza minore
ascendente. La distanza stilistica mi permetteva di approfondire
il senso di stordimento che avevo già sperimentato nel
Gioco delle Gabbie , mentre il loro "codice genetico'
comune rendeva possibile e percepibile un articolato gioco di
assolvenze e dissolvenze. Il tutto era controllato dalle mie esigenze
espressive che a quell'epoca erano decisamente influenzate dalle
teorie della luce e della materia acutamente descritte da Richard
Feynman in Qed (ed.Biblioteca Scientifica di Adelphi).
Un altro mondo di stimoli rispetto all'interesse per la memoria,
ma come le dicevo l'universo concettuale che sta dietro ad un
mio lavoro è spesso piuttosto complesso e articolato su
più livelli.
Negli anni successivi mi sono posto l'obiettivo, quasi didattico,
di mettere alla prova alcuni degli artifici compositivi che avevo
elaborato nel Metagramma.
E'
per esempio il caso di una serie di brani per strumento solista
che ho intitolato Tracce. Tracce II per fagotto
e Tracce III per clarinetto basso sono quasi degli studi
sui possibili modi di interpolazione melodica tra frammenti appartenenti
a mondi stilistici molto diversi fra loro, ma sempre legati da
codici genetici comuni. Altre tracce per clarinetto solo,
sviluppa invece l'idea dello sdoppiamento su più livelli:
lo sdoppiamento di un attore/esecutore che tenta di seguire le
pulsioni emotive di più personaggi, ma anche lo sdoppiamento
percettivo che emerge da una apparente polifonia melodica e metrica
resa efficace dall'uso di frammenti dotati di "connotazioni"
molto differenziate. Nella sezione centrale del pezzo, ad esempio,
sul "fondo" di un multifonico si deposita una trillo
microtonale che si espande fino a diventare tremolo; lo stesso
tremolo viene quindi articolato secondo una polifonia di due metri
diversi. Infine alla differenziazione metrica si aggiunge la differenziazione
semantica: la voce superiore del tremolo presenta il tema della
Seguidilla dalla Carmen di Bizet mentre - in modo
apparentemente contemporaneameo - la voce inferiore scandisce
il celebre tema de Il Barbiere di Siviglia. Il risultato
in una sala leggermente riverberata è entusiasmante: chiudendo
gli occhi diventa difficile non sentire due clarinetti!
La
polifonia apparente era usata già con Bach...
Bach sfruttava esclusivamente la discontinuità: i salti
tra registri differenti. La mia falsa polifonia è caratterizzata
invece da una polifonia di "memorie" diverse e apparentemente
contemporanee che marcano la separazione fra le due linee virtuali.
Ma non è solo questa la cifra del pezzo: lo sdoppiamento
è vissuto anche dallo strumentista, vittima di una schizofrenia
espressiva e drammaturgica tra unione e separazione.
Forse
(vissuta) anche (da) chi la sente...
Credo di sì.L'opposizione dialettica di più voci
virtuali è presentata come il risultato di un doloroso
processo di scissione iniziale. La conquista di una autonomia
fra le due voci virtuali è quindi vissuta con crescente
leggerezza dallo strumentista/protagonista. Ma alla fisica non
si comanda e così lo sforzo per mantenere la falsa polifonia
si fa sempre più sentito fino a che le due voci esauste
si richiudono in un unico e disperato trillo sovracuto.
Domanda...
La ricerca di una polifonia di memorie è un'operazione
piuttosto diversa rispetto all'uso neoclassico o neoromantico
della citazione. Nel primo caso la citazione rimandava alla necessità
di un contatto con un mondo passato e perduto. Nel mio caso invece
si tratta di gettarsi "di pancia" nella giungla di simboli
che oggi ci circonda negando confini inutili per disegnare paesaggi
surreali. In ciò sta una delle principali differenza fra
un uso neoclassico ed uno, semmai, postmoderno della memoria.
Perché
(allora) c'era meno caos a livello di comunicazione...
Sì e di conseguenza si poteva mirare ad una appropriazione
cannibalica del passato. Lo Stravinskij che riutilizza gli stilemi
barocchi o l'incipit della Quinta di Beethoven in un certo senso
fagocita completamente l'identità stilistica di ciò
che cita. La dialettica di molti miei lavori si articola intorno
alla "dissonanza" incolmabile fra diverse identità
stilistiche, intorno ad un'opposizione di simboli. In Stravinskij
gli spigoli appuntiti che emergono nell'utilizzo di materiali
musicali del passato sono arrotondati e "risolti", uniformati
senza troppi complimenti dalle sue zampate compositive.
E'
geloso della sua musica quando la affida agli altri?
Geloso no. Mi considero assolutamente e tranquillamente dentro
il meraviglioso circolo ermeneutico che definisce la musica: il
compositore, l'interprete, il pubblico, la società.
Ho avuto certo la fortuna di lavorare con interpreti davvero sensibili
ed intelligenti che compensano ampiamente le avventure/disavventure
di alcuni concerti.
Con Nathalie Chabot, solista della prima esecuzione di Finzioni
per violino ed elettronica realizzato all'IRCAM nel 1991, ricordo
di aver assistito per la prima volta ad una prova in cui a stento
avevo suggerimenti da aggiungere. Esperienze simili si sono ripetute
con clarinettisti come Roberta Gottardi per Altre Tracce
e Guido Arbonelli per Tracce III o con il chitarrista Massimo
Laura, per il quale ho scritto Concertino per chitarra
e orchestra. In questi casi è un piacere e un grande arricchimento
ascoltare i loro suggerimenti su come ottimizzare la resa espressiva
del brano.
Il
suo rapporto costante con la musica elettronica ha influenzato
il modo di affrontare la composizione?
Ha indubbiamente influenzato il mio modo di comporre per strumenti
acustici. Essendo stato un intrepido rockettaro in gioventù,
ho iniziato lo studio della musica elettronica al Conservatorio
di Santa Cecilia quando già avevo acquisito una certa esperienza
con i sintetizzatori. Per il diploma presentai un breve lavoro
per nastro, Punti da un secondo in cui mettevo in pratica
alcune idee sull'organizzazione di sistemi microtonali. Le esperienze
più importanti si sono svolte comunque in seguito, nell'anno
passato all'IRCAM di Parigi grazie ad una borsa di studio e nel
1995 all'EMS di Stoccolma. In quegli stessi anni ho fondato insieme
a Luigi Ceccarelli e Alessandro Cipriani l'Edison Studio che oggi
è riconosciuto come uno dei più attivi centri di
musica elettronica in Italia. Attraverso queste esperienze la
tecnologia musicale e il pensiero che la sostiene hanno progressivamente
e profondamente influenzato sia le mie idee sulla musica, sia
gli strumenti reali e concettuali che quotidianamente utilizzo.
Programmi
futuri
Quest'anno ho lavorato molto sugli strumenti a fiato sia in organici
da camera (Canto di Festa per voce recitante, flauto, clarinetto,
pianoforte, percussione e trio d'archi su testi di Luciano Violante
commissionato dall'Associazione Musicale Lucchese) sia in brani
solistici (Frans van Mieris per fagotto e voce recitante
su testi di Edoardo Sanguineti). Il prossimo anno sarò
ancora impegnato con la commissione dell'Orchestra Regionale del
Lazio per orchestra e con molta musica elettroacustica: una commissione
del Centro Agon - Fondazione Dragoni per viola e nastro magnetico,
una nuova versione di Scaenae Intimae per chitarra e nastro
che sarà presentata a Stoccolma e Berlino in primavera
ed una commissione del Festival di Bourges per percussioni persiane
e nastro magnetico.
Susanna Persichilli
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