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Liszt per banda e piano - Il nuovo lavoro di Mauro Cardi rende omaggio al compositore
intervista di Carla Di Lena
Il Giornale della Musica, n.287/Dicembre 2011

Présence d'éléments romantiques dans l'oeuvre des compositeurs italiens d'aujourd'hiu
intervista di Carlo Boschi
in Romanticism as an Attitude, Conservatoire de Strasbourg, settembre 2007

Intervista di Alessandra Sciortino
inedita, settembre 2008

Intervista di Francesco Denini
Suono Sonda, n.3 Giugno 2004

Intervista di Ornella Rota
Suono, luglio-agosto 2004

Intervista di Daniele Del Monaco
Biblionet - ottobre 2003


Intervista di Alessandro Mastropietro

11.11.2001

Intervista di Riccardo Piacentini
Rassegna Musicale Curci - Anno L n.3 - settembre 1997

Intervista di Marco Spada
l'Unità, 17.3.1990




Intervista a Mauro Cardi, presidente di Nuova Consonanza nel biennio 1999-2000
di Alessandra Sciortino
 
A.S. Lei ha ricoperto la carica di presidente di Nuova Consonanza nelle stagioni 1999-2000 (con epilogo nel 2001), ma effettivamente di quali festival si è occupato rispetto all'investitura della carica, considerati i tempi di programmazione artistica?
M.C. Mi sono occupato di tutte le stagioni che cita, come anche, seppur in qualità di vicepresidente, delle due precedenti, 1997 e 1998, in collaborazione stretta col presidente di quelle due annate, Michele Dall'Ongaro.
A.S. Poiché non esiste di fatto una figura di direttore artistico presso Nuova Consonanza, in che modo è stata stilata la sua stagione in collaborazione col consiglio di amministrazione?
M.C. Il presidente di Nuova Consonanza è a tutti gli effetti il direttore artistico del festival e delle altre attività concertistiche dell'associazione. Ovviamente il contributo portato dagli altri membri del cda, come anche dai soci, può risultare importante e nella mia gestione ho cercato di coinvolgerli il più possibile, se non addirittura in qualche caso delegarli, per la progettazione di determinate manifestazioni. Ma la questione della separazione delle cariche di direttore artistico e presidente, affrontata numerose volte, rimane tuttora irrisolta.
A.S. Il suo motto, condiviso col suo predecessore, e dunque in linea col vissuto più recente di Nuova Consonanza, è stato no hay caminos/ hay que caminar, come scrive nel numero 1 del marzo 1999 su "nc news". Vuol spiegare le ragioni di questo motto?
M.C. Il riferimento a Luigi Nono, che riprendeva un verso di Tarkowskij, ci sembrava emblematico nella realtà culturale del 1999 (come lo è forse ancora nel presente 2008). Voleva essere un richiamo a un'etica, e a una poetica, che si fondassero sull'impegno di proseguire ostinatamente lungo un percorso, anche quando questo percorso non fosse più chiaramente visibile, ma accidentato e confuso quanto mai prima, anche quando sembrava che in verità non ci fossero più strade da percorrere, esaurite quelle mete ideali, a tratti utopistiche, che avevano guidato la musica contemporanea nell'immediato dopoguerra. 
A.S. La musica come forma di pensiero (dei musicologi, dei critici) e la musica scritta, la musica da suonarsi e la musica da vedere, la musica da fruire. Quale dialogo c'è, per quella che è la sua esperienza (sia diretta, e cioè da presidente, sia indiretta) tra questi ambiti del sapere musicale in Nuova Consonanza?
M.C. Nuova Consonanza è prevalentemente un'associazione di compositori. Lo spazio e il dialogo che, all'interno dell'associazione, viene riservato ai diversi ambiti del sapere e del fare musicale dipende dal momento storico, oltre che dalle volontà dei cda che si succedono. Credo che in questa fase Nuova Consonanza abbia il dovere di interrogarsi a fondo sul suo ruolo, creando maggiori occasioni di discussione e riflessione, all'interno e all'esterno. 
A.S. In un paese in cui le riforme hanno origine dalla fine (vedi la riforma dei conservatori) per confrontarsi poi con lacunose voragini a monte, in quale modo si può effettuare una rivoluzione copernicana che parta dal rapporto col fruitore/ascoltatore?
M.C. Coinvolgendo il fruitore, ma soprattutto, ancor prima, andando a "scovarlo" negli ambienti culturalmente e socialmente vicini alla nostra realtà di compositori. Penso alle scuole, alle università, ai conservatori (cosa assai poco ovvia, come si potrebbe ingenuamente e sensatamente pensare...), ai musei, ai centri di ricerca, ai poli culturali, ai centri sociali.
A.S.
Crede che la secolarizzazione di uno stimolo percettivo di tipo visivo, fortemente coadiuvato dalla tecnologia, abbia in qualche modo disabituato l'ascoltatore alla sensibilità uditiva? In effetti più frequente è la presenza di pubblico presso quegli spettacoli di plurima stimolazione sensoriale quale anche l'opera lirica.
M.C. É vero, e lo riscontro ogni qual volta vedo accrescere l'appeal e le presenze di pubblico ai concerti che impiegano mezzi multimediali. Dobbiamo riflettere attentamente su questo fenomeno.
A.S. La musica colta del teatro d’opera ha raccolto per tradizione il pubblico più in vista, sfilate di nomi prestigiosi divenendo un appuntamento ‘sociale’ ancor prima che culturale (ma rimanendo pur sempre, almeno, pretesto culturale). Lo stesso non è accaduto nell’ambito del contemporaneo: non si crea l’evento culturale, l’interesse, la curiosa e più alta attenzione. Perché, a suo avviso?

M.C. Ma negli anni '60 e '70 lo era! anche se pur sempre in un ambito di élite culturale.  Il legame con gli intellettuali e gli altri artisti si è poi andato perdendo col tempo, quel senso di condivisione di un percorso si è sfilacciato in innumerevoli strade solitarie. Va ricucito secondo principi e linee nuove; nella nostra breve esperienza abbiamo tentato di invitare e coinvolgere attivamente intellettuali, ricercatori e liberi pensatori delle più diverse estrazioni, come testimoniano, ad esempio, gli atti dei convegni realizzati.
A.S. Quanto crede sia importante per un avvicinamento all'uditorio la partecipazione attiva del pubblico che entra a far parte dell'opera? Nell'ambito della musica contemporanea (esclusa la parentesi di happening e performance in cui comunque la sua partecipazione è più che altro passiva, ormai datata e anacronistica) ci si è forse allontanati da ciò mentre l'arte visiva sembra sempre più incuriosire sedurre e rendere attivo o spettatore.
M.C. E' importante, ma rappresenta una ricerca ancora tutta da compiere.

A.S. E' forse questa la malattia di cui soffre la musica "non applicata", l'assenza di spettacolarizzazione?
M.C. Sarebbe facile rispondere "si". Di fatto va tuttavia anche considerato, per la riuscita di una manifestazione concertistica, tutta una serie di componenti ormai indispensabili per un pubblico esigente e sollecitato da innumerevoli richiami. Penso alla qualità intrinseca delle musiche presentate e degli interpreti che le propongono, ma anche all'idea tematica che collega i brani programmati, penso all'acustica della sala, alla cura delle luci, alla drammaturgia del concerto in ultima analisi... tutti elementi che conferiscono a un concerto quel valore aggiunto che lo rende uno spettacolo, pur senza far necessariamente ricorso a mezzi multimediali. 
A.S.
«Forse siamo arrivati a considerarci filosoficamente contemporanei di tutte le precedenti culture» - scrive George Crumb nel 1980 sulla rivista "The Kenyon Review" il cui testo è peraltro riportato nel programma del 1999. Quanto pesa o meno questa globalizzazione culturale? Dipende solo da una difficile e poco distaccata analisi del presente come in tutte le epoche? O esiste una vera pluralizzazione di tendenze? Oppure, ancora - citando sempre Crumb - comoedia finita est?
M.C. Comoedia finita est: su questo, se devo essere onesto e disincantato, nutro pochi dubbi. Eppure questo nostro occidente proclama da oltre cent'anni questa fine di cui si perpetua all'infinito, producendo ancora capolavori, l'ultimo canto del cigno. Siamo insomma abituati a considerarci, in ambito culturale ed artistico, postumi a noi stessi, sin dalla nascita. Detto ciò dovremmo chiudere qui, eppure... eppure...Mi viene in mente quel passo di Baudrillard, cito a memoria, in cui riferisce di quel tipo che, nel corso di un'orgia, con fare ammiccante, dice con concupiscenza alla compagna di giochi: hai da fare dopo?
Su questa insaziabilità, se supportata da reale necessità di espressione (nel senso petrassiano), possiamo contare per essere ancora sorpresi da eventi inattesi e imprevedibili.
A.S. Così si legge nell'introduzione del primo ed unico numero della rivista "Ordini" datata luglio 1959: «Il mondo contemporaneo è fondamentalmente scisso, ma allo stesso tempo tende all'integrazione.
Così accade che per un artista d'oggi non basta essersi espresso egli non può rintanarsi nel proprio hortus conclusus egli deve affrontare quanto più gli è possibile, il contatto l'urto, con altri campi dell'esistere con altri ordini di realtà». Questa riflessione suona attuale. Quanto è cambiata dunque concretamente la realtà musicale da allora ad oggi?

M.C.
Poco, sembrerebbe, con la differenza che la presenza dell'artista di oggi nella società non è più soltanto un imperativo morale, come quello che ispirava negli anni '50 e '60 gli artisti più sensibili e impegnati (ancorché, diciamolo, un po' coccolati dalle istituzioni che, seppur non integrandoli fino in fondo, lasciavano loro ampi spazi di azione), ma, questa presenza, rappresenta una realtà, assai più autentica e concreta, anche se forse meno estetica, in molti casi una scelta obbligata.
A.S. In quale ambito musicale circoscritto si colloca nel nuovo millennio l’operato di Nuova Consonanza?
M.C. Si occupa, e secondo me dovrebbe occuparsi maggiormente, avendo la disponibilità di maggiori risorse da un lato e maggior coraggio dall'altro, della proposta di realtà e pensieri musicali nuovi e in qualche modo sperimentali (seppur in un'accezione diversa da quella delle avanguardie storiche).
Il nome di un'associazione storica come Nuova Consonanza, che a livello europeo è ancora simbolo di autorevolezza, come ho potuto verificare nei diversi contatti avuti da presidente, andrebbe speso tutto per questa causa. 
Quello che deve evitare, pena la sua sopravvivenza, è la tentazione, comoda ma fatalmente perdente alla distanza, a divenire una piccola società di concerti.
A.S. La sua stagione 2000-2001 ha goduto delle sovvenzioni dell’Unione Europea. In che modo si gestisce un progetto europeo e quante volte, a sua conoscenza, ne è stato presentato e approvato uno nella storia dell’associazione?
M.C. Credo siano state tre le stagioni sovvenzionate da progetti europei (Caleidoscopio prima, Musica Duemila poi), sotto la presidenza Dall'Ongaro e poi Cardi. Non mi risulta siano stati finanziati altri festival successivamente.
L'impegno per partecipare a quei bandi europei, e poi per realizzarli secondo le norme imposte a livello comunitario, lo ricordo sempre estremamente oneroso, sotto ogni profilo. A posteriori posso dire che comunque ne valeva la pena, per l'entità dei contributi e per l'apertura internazionale che rappresentarono ogni volta.
A.S. Lei ha ricoperto il ruolo di presidente e, a tutt’oggi, quello di socio. Qual è oggi il ruolo operativo dei soci dell’associazione?
M.C. Sono un semplice socio, anche se spesso coinvolto, come compositore, in diverse iniziative dell'associazione.
A.S. Qual è la stagione ideale, ipotizzando un pubblico ideale e delle risorse utopiche?
M.C. Quella in cui, dopo aver operato le scelte artistiche e prima ancora tematiche, le une e le altre possibilmente coraggiose e non appiattite su tendenze alla moda, si potessero poi mettere in condizione i musicisti e tutti gii artisti invitati di potersi esprimere al meglio delle loro possibilità.

 

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"Mauro Cardi: Child"
Intervista a Mauro Cardi di Francesco Denini
per "SuonoSonda: rivista di ricerca musicale"
N.3 - Giugno 2004


F.D. Child è un brano per clarinetto basso del novembre del 2003
che porta una dedica particolare.

M.C.
È dedicato al mio piccolo, di un anno e mezzo.
F.D. Una dedica che, nella sua eventuale connessione con il titolo, potrebbe anche far pensare a campi d’esperienza non estranei a una qualche ‘lente auditiva’ implicata nella forme dinamiche dei suoni ...o è una mia troppo libera associazione, un’inchiesta troppo insistente?
M.C. Da quando è nato mio figlio tutto il mio rapporto col tempo si è ridefinito. Cercare di adeguarsi ai suoi tempi, ripensare le mie giornate, toccare con mano la velocità del tempo... Mi diceva un mio amico compositore: ‘vedrai, ora che sei diventato padre farai in pochi mesi l’esperienza di tutto l’evoluzionismo umano’. La lente del tempo, appunto.
F.D. Bene, siamo in tema, allora ...e però entriamo così naturalmente in quelle zone della formatività in cui esperienze emozionali e sottosuoli dell’intenzione s’intrecciano con la forza spontanea, concreta e quotidiana della vita. Qualcosa, di cui non è poi così facile parlare...
M.C. Non lo è, infatti. E non lo è per una strana forma di pudore tutta maschile... ma, aggiungo, non lo è anche per scelta deliberata.
Ho sempre pensato che quando si parla della propria musica si deve lasciare alle spalle l’emotività, i sentimenti, il vissuto ecc. ... perché ineriscono a sfere assai diverse e perché possono risultare fuorvianti.
Non amo indirizzare l’ascolto inibendo di conseguenza una libera ‘navigazione’ personale dentro l’opera. In altre parole, ho antipatia per quei programmi di sala che ‘spiegano’ un’opera illustrandone i contenuti, col risultato di condurre per mano l’ascoltatore nella ricerca di quello che (parola dell’autore) presume ci sia da vedere. Se così indirizzata l’esperienza dell’ascolto si riduce a qualcosa di simile a quanto accade nel campo delle arti figurative, quando, entrando in una cattedrale o in un museo per la prima volta, con una guida in mano, passiamo il tempo a trovare conferme più che fare scoperte. Tutto ciò premesso, però - chissà forse proprio in questo il bambino mi ha cambiato... insegnandomi la sua naturalezza spudorata dei sentimenti... - propongo di continuare ad esplorare lungo questo margine sottile tra l’esistenziale e l’estetico.
F.D. Nulla è più naturale che sentire anche solo presso la semplice immagine di un bambino l’aprirsi di potenzialità energetiche improvvise, profondissime: forse è qualcosa di simile che la musica del Novecento ha inseguito in termini estetici . Ma è altresì possibile che si profili oggi anche un’altra nuova sfida, forse anche in ragione d’una spinta del pensare femminista e democratico, una sfida, concernente una qui davvero sottilissima facoltà di vivere tali dimensioni in termini più concretamente quotidiani, e senza perdere però un legame in controluce con l’immenso bagaglio della cultura musicale occidentale? Non è descrivibile anche così questo margine lungo cui Child sembra portarsi?
M.C. Gli occhi del bambino sono costantemente aperti alla stupefacente scoperta del mondo. Noi che dello stupore abbiamo perso il senso e il valore, abbiamo perso quello sguardo. Lo ritrovo negli occhi di mio figlio, ma ritrovare e rileggere quegli sguardi stupiti è già di per sé un’operazione intellettuale, anche se può essere colma d’affetto. Sento, anche solo a parlarne, che il solco tra l’arte e la vita rimane profondo, incolmabile. Perché quando noi parliamo di arte, quando parliamo di musica, siamo alla ricerca di un senso, di un percorso, di una poetica... un bambino la musica semplicemente la vive. E della musica vive quanto più lo riporta ad esperienze fisiologiche, ne vive quindi il ritmo in primis, al suo stato di natura. Non cerco dunque una sintesi impossibile, come non cerco di riversare l’una cosa nell’altra. Ho sempre creduto, come dice Derrida citando Picon, che “per l’arte moderna, l’opera non è espressione, ma creazione: permette di vedere quello che non è stato visto prima, dà forma invece di rispecchiare”. L’arte rimane un artificio, ma vivere fino in fondo le emozioni implica trasmetterle intatte, comunicarle... condividerle infine.
F.D.
Ed è qui che mi sembra stia lo specifico (se mi passi un po’ di pesantezza teorica) che pone Child al centro della questione temporale: la forza aoristica d’un microtema come quello di Ennio Morricone si riverbera nel tempo quasi fosse una traccia scritta nella memoria materiale del suono. La scrittura vi si sottopone come accadrebbe all’immagine fulminea d’un child, alla riverberazione d’un istante riconoscibile, d’un riconoscimento istantaneo pur nel differimento (un puer archetipico prossimo a quello di cui si parlava nel nostro I numero con Ercolani e Frisa); qualcosa che sembra travagliare gli ipogei della categoria del ‘nuovo’ ricollegandola a quelle esperienze di Momentform che, da Debussy a Stockhausen e Scelsi, sembrano costituire quasi un’unica secolare inchiesta. La lente del tempo si mostrerebbe qui come il tentativo d’approssimarsi a una forza dionisiaca che è al pari propagazione dell’opera e maschera della sua origine (e dell’origine in generale come ‘ordine delle coesistenze’), ovvero come differenza, differimento del e nel tempo, nel senso che è proprio alla tua citazione derridiana; ma, il tutto ormai in controluce, filtrato come in certe visioni quotidiane di Vermeer attraverso la dismissione d’ogni elezione intellettuale, autonomo e pure in dialettica con la vita, vita stessa compossibile alla vita.
M.C. La complessa teorizzazione la passo, perché filtrata dal filtro vermeeriano. La folgorazione dionisiaca, se perde calore, acquista tuttavia verità, si fa immanente, fino al quotidiano. Penso alla quotidianità della scrittura, che non era proprio la quotidianità di Scelsi, ad esempio. La scrittura come esperienza vissuta, fisicamente, la scrittura come un andare verso. E penso ancora a Derrida che chiosa il Flaubert di: “non si può pensare a scrivere, se non si è seduti”, chiarificando e restituendo in modo esemplare: “la scrittura è fin da principio e per sempre qualche cosa su cui ci si china”.
E la fluidità della scrittura - che non è detto sia necessariamente scorrevolezza - sento che mi appartiene, la fluidità di un tratto in movimento che si alimenta anche e soprattutto di discontinuità, di gesti fuori dalle righe, per fagocitarli dopo averne tratto linfa, per trovare o creare senso partendo dalle immagini fulminee di cui parlavi. Con Deleuze: “Bisogna provare dapprima l’effetto violento di un segno, in modo che il pensiero sia quasi costretto a cercarne il senso”.
F.D. E quindi, allora, Derrida o Deleuze? Un pensiero in cui la scrittura scopre la sua forza trascendentale rispetto alla phoné o un’ontologia differenziale del sensibile che ha implicato per un’intera area di musicisti un ritorno dalla scrittura al suono (penso a Mureil, Grisey, Levinas, Dufourt) e che sembra riaprire oggi una riconsiderazione di quelle scritture aperte all’estemporaneità che hanno percorso la musica dalla fine degli anni ‘50 sino agli anni ‘70? In questo senso talvolta sospetto non tanto che sia la musica a rincorrere percorsi che la filosofia ha compiuto ‘più propriamente’ presso la scrittura, ma che sia la filosofia ad avere per ora mancato l’appuntamento con i problemi profondi sollevati dalla scrittura musicale. La scrittura musicale sembra comportare tratti comuni alla scrittura verbale in rapporto alla capacità di trascendimento rispetto alla phoné, liberando la musica dai gioghi della memotecnica per fornirle una memoria più storicamente trascendentale e un’articolazione che apra a futuri mondi alternativi, ma la scrittura risulta essere anche il tratto più evidentemente distintivo della cultura occidentale rispetto alle altre culture musicali, non facilmente scindibile da quel fono-logo-centrismo che Derrida coglie al centro delle illusorie presenze della metafisica occidentale. In tale chiasmo, se c’è, come pare,
dove si nasconderebbe l’ombra di Dioniso?
M.C. Il terreno si fa scivoloso, accidentato... eppur sembra percorrere, sotto altre angolazioni, percorsi collaudati, contrapposizioni storicizzate ancorché sempre fatalmente presenti. I compositori citati, non a caso provenienti tutti dallo stesso movimento culturale, sono quanto di più interessante ha saputo esprimere l’ultimo scorcio di Novecento. Ma, se condivido la tua analisi di un percorso che segna un ritorno dalla scrittura al suono, personalmente lo sento incompleto se non diciamo del punto finale a cui perviene, a cui aspira a pervenire: la scrittura del suono. Senza la quale Grisey non sarebbe Grisey, Mureil non sarebbe Mureil... e la proposizione del suono sarebbe relegata a mera contemplazione del suono stesso. In altre parole, l’epifania del suono rimane a mio avviso un oggetto vuoto, pur nella sua bellezza, se privato di una contestualità e astratto da quella dialettica che, nelle diverse forme,ha da sempre caratterizzato la nostra cultura per comunicare, narrare, testimoniare...
F.D. Contestualità, comunicazione e testimonianza si contrapporrebbero così ad ogni pura epifania del suono, riportando l’ altro all’intenzione, l’inconscio alla coscienza, il tirannico/creativo puer aeternus all’archetipo del senex come saggio/sterile Signore del Tempo. Per Freud è l’uccisione del ‘narcisismo primario’ che da spazio alla vita e al desiderio. Sono temi che Bambini nel tempo, la scorsa mostra modenese curata da Sergio Risaliti e Michela Scolaro, ha ritrovato lambiti nella più recente arte visuale (sino al caso milanese dei bambini di Catelan). Lo sfondo mitico di tali suggestioni concorre a una più ampia conciliabilità tra consequenzialità causale e indeterminazione degli elementi materiali o, su altri piani, tra l’esperienza storica e una visione pluralista della Modernità (in un modo che era stato già focalizzato da Manzoni e che si dovrebbe riconoscere al pensiero sulla storia e sulla scrittura di Dufourt). Ma il crinale che si verrebbe a delineare - lo stesso che individuavi tra prima infanzia ed evoluzionismo umano, tra artificio ed emozioni, tra storia e quotidianità, tra immediatezza del suono e trascendentalità storica della scrittura – non sembra rimandare ad una gradazione tra disponibilità all’ascolto fenomenico e partecipazione ai contesti del far musica, penso a qualcosa di parallelo alla scala ordine/disordine proposta da Grisey (ne propongo un modellino nella pagina che segue)?
M.C. Gradazione: ecco, partiamo da qui, come condizione che renda accettabile un’analisi posta in questi termini; perché di tutti i gradi d’ordine di una scala della percezione nessuno rende conto in sé di un ascolto reale, che vive solo in quella dinamica temporale in cui piani diversi si alternano e intersecano divenendo dialetticamente efficaci laddove, si intende, incontrino un pensiero compositivo organizzato formalmente. Ma tutto ciò è accademia. Da compositore, e vorrei disperatamente parlare solo di quanto conosco con i sensi oltre che con la ragione, da compositore non posso non annotare che gli schemi di Grisey, ancorché interessanti e in buona parte condivisibili, rimangono al di là dell’opera musicale, opere di Grisey comprese. Perché la tabella relativa ai gradi d’ordine del suono nel tempo, che vorrebbe essere oggettiva, collocandosi sul terreno “neutro” dell’oggetto musicale in sé, è appunto relativa al suono e non alla musica; mentre la tabella dei piani d’ascolto si colloca evidentemente al livello “estesico”, quindi oltre l’opera, tra l’altro indagando su di un fenomeno, quello percettivo, soggetto ai mutamenti che la storia, e la geografia, determinano sull’ascolto musicale. L’intuizione di una forma si alimenta di diversi livelli di complessità, in un gioco continuo tra prevedibilità e imprevedibilità, ordine e caos, che il compositore ordisce, e in cui l’ascoltatore viene proiettato. In questo senso direi che tutto è contesto, così come tutto è codice, se siamo all’interno di un pensiero critico che fa un uso strumentale della retorica. In questo senso non c’è grado di intelligibilità che non sia perseguito e programmato (che poi sia raggiunto e soddisfatto… è tutt’altro discorso). Infine solleverei dubbi su eccessive semplificazioni. Infatti, se l’eccesso di struttura può produrre caos sul fronte percettivo quando, fideisticamente, estende sul dominio della forma un operare costruito sul dominio dei numeri, va incontro a fallimenti analoghi chi deduce un metodo compositivo da uno studio sulla percezione. In verità sappiamo ancora molto poco su come funziona il cervello umano, e ancor meno sul fenomeno della percezione musicale. Se la musicoterapia e in generale tutti gli studi sulla percezione e sugli effetti della musica sull’uomo utilizzano metodi rigorosi, l’atto creativo in sé rimane in buona misura avvolto da mistero, anche quando è irrobustito da conoscenze scientifiche. Detto ciò, sono però d’accordo con te nell’individuare l’anello di congiunzione tra l’opposizione immediatezza del suono/trascendentalità della scrittura da un lato e la sua ricaduta sull’ascolto dall’altro in un atto di volontà.
La disponibilità di cui parli è la condizione necessaria perché una qualsiasi forma di comunicazione abbia luogo. E la comunicazione che a noi interessa è dinamica, anche a rischio dell’incoerenza.
Un criterio che va pericolosamente diffondendosi, parallelamente all’avvenuta mercificazione dell’arte, appare quello di giudicare oggi anche la nuova musica sotto il profilo della sua presunta efficacia. Una musica efficace ad accompagnare una sequenza di immagini, a raccontare una storia, a memorizzare un marchio, a indirizzare una scelta, a condizionare, unire, dividere… ma anche trattando di musica “colta” viene sempre più spesso adottato un criterio simile. «Questa musica funziona» può essere un giudizio gratificante che sotto cela un pensiero totalitario di chi presume di individuare in un’opera la sua adesione a un gusto o a una categoria definita e giudicarla di conseguenza. Chi fa ricerca, in senso scientifico, tecnico o anche espressivo, non può essere ricondotto a categorie e gusti condivisi. Né a tabelle di sorta. Viene da chiedermi: nel 1822 la Sonata op.111 “funzionava”?
F.D. Come ridisegneresti allora in questo ambito l'intero rapporto tra opera e tempo?
M.C. Riferendomi a Child, la presenza tematica di citazioni da Morricone
è già un’operazione sul tempo, utilizzando infatti come materiale costruttivo del lavoro frammenti musicali che rimandano ad una memoria collettiva e condivisa. Tanto più risultano riconoscibili, tanto meglio le citazioni supportano uno sviluppo musicale che sposta l’attenzione sulla loro trasformazione e sulle operazioni temporali, divenendo pretesti per percorsi formali. La nostra memoria di quei temi garantisce di un’eventuale complessità nel loro trattamento nel tempo. Ma la musica sfida la vettorialità del tempo a più livelli. Vorrei riferirmi a un grafico, tratto da un mio breve saggio del 1985 , che esemplificava, in maniera volutamente schematica, alcuni percorsi all’interno di un flusso di processi compositivi. Nel grafico ogni movimento verso sinistra sull’asse x rappresenta un movimento a ritroso nel tempo. Sul piano della scrittura sono del tutto abituali i processi che, portando avanti lo sviluppo musicale, procedendo quindi fatalmente in avanti nel tempo, in realtà, ripetendo, rileggendo, retrogradando i materiali, di fatto tornano al tempo passato. O per lo meno alla memoria di questo tempo passato. Storicamente gran parte delle tecniche compositive si sono sviluppate proprio a partire da questa possibilità di procedere nei due sensi sull’asse temporale, fondandosi sull’artificio di una scomposizione del tempo in durata, operando quindi con una dimensione del tutto quantitativa del tempo.
Ma tornando al rapporto opera-tempo, quando l’ordine naturale si ristabilisce, per così dire, quando l’opera riacquista una sua dimensione temporale naturale, prendendo vita in una pubblica esecuzione ad esempio, allora percepiamo il tempo organizzato nell’opera. Percepiamo se le strategie messe in atto dall’autore nel tessere le sue trame abbiano prodotto senso, se la “finalità” perseguita (che Kant pone nel soggetto riflettente come condizione di possibilità oggettiva del giudizio di gusto) risulti manifesta. È, se mi consenti, l’epifania della forma che si rivela, è il momento della verifica, spietata perché incontrovertibile nel suo hic et nunc, di un’opera lungamente immaginata a “tempo sospeso” e “addomesticato”… e poi calata finalmente nel reale. È anche, infine, il momento del distacco e della nascita. E qui l’analisi non ci sorregge più perché, soprattutto, percepiamo la qualità del tempo.

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"L'alternanza di giochi e regole"
Intervista a Mauro Cardi di Ornella Rota
per la rivista "Suono"
N.370 - Luglio/Agosto 2004

 

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"Le strategie del comporre"
Intervista a Mauro Cardi di Daniele Del Monaco
per la rivista online "BiblioNet
"

Daniele Del Monaco. Qual'è stato il tuo percorso artistico?
Mauro Cardi. Dopo regolari studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia mi sono perfezionato con Franco Donatoni (e questo è stato un incontro determinante per tutti gli sviluppi futuri). Sono stato a Darmstadt nel 1984, riportando una somma delusione se confrontavo l'opinione formata sui racconti o sulle cronache degli anni '50, con il degrado della realtà dell'84. Molto più interessanti sono state le esperienze olandesi, per la apertura dell'ambiente ed il livello delle formazioni che ho avuto modo di conoscere; sono stato selezionato o premiato a diverse edizioni del Gaudeamus e da lì si sono avviati esperienze per me estremamente formative. Nel 1989 sono stato per oltre un mese in Australia, toccando con un piccolo tour le principali città.
Negli anni '80, insomma, ho cercato di farmi un mestiere, maturando convinzioni e aspettative, in un percorso abbastanza comune ai compositori della mia generazione. Ma già sul finire degli anni '80, pezzo dopo pezzo, tutto lo scenario della musica contemporanea iniziò a cambiare. Le istituzioni roccaforti della nuova musica iniziavano a perdere importanza e credibilità; la RAI, che aveva scritto molte pagine della storia della musica del secondo Novecento, chiudeva le sue orchestre e diede avvio a un'inesorabile cancellazione della nuova musica nella programmazione radiofonica; gli editori, che erano stati un punto di riferimento e il principale promotore della nostra musica, entravano uno dopo l'altro in crisi, fino alla inconsistenza attuale.
Era d'obbligo rivedere e mettere in crisi aspettative e atteggiamenti.
Io fino al 1990 mi sono dedicato esclusivamente alla musica strumentale, poi una serie di circostanze esterne hanno prodotto un allargamento degli orizzonti facendomi avvicinare al teatro musicale (una commissione dell'Accademia Filarmonica Romana del 1995), alla musica elettroacustica (commissioni RAI e Centro Armando Gentilucci, corso all'IRCAM nel 1995) e negli ultimi anni ad esperienze in continua evoluzione (l'uso delle tecnologie, la musica e gli strumenti di matrice etnica, una ritrovata esperienza come esecutore su strumenti MIDI...). Ma al di là dell'allargamento degli orizzonti musicali e dei mezzi espressivi e tecnologici a disposizione è l'idea stessa di compositore che andava necessariamenti rivista, per approdare a qualcosa di sicuramente meno definito e meno consolatorio, ma più realisticamente e radicalmente calato nel presente, pur con tutte le perdite dolorose, le illusioni cadute in un'epoca di crisi.
Sono stato Presidente di Nuova Consonanza dal 1999 al 2001 e spero di aver dato un'idea, con la programmazione realizzata in un triennio, di questa difficile, incoerente, problematica, ma ancora estremamente ricca e sfaccettata realtà della musica di oggi. E mi rimane, rafforzato negli anni, un forte senso di curiosità per gli sviluppi futuri.
DDM. Pensi che l'esigenza, tipica dei nostri giorni, di ricollocare la figura del compositore all'interno di un contesto culturale comporti anche una ristrutturazione del concetto stesso di "musica d'autore"?
MC. Non credo. La ricollocazione, come dici tu, della figura del compositore, è nei fatti. Ma nella crescita esplonenziale degli autori, quindi delle musiche e della diffusione delle musiche a cui assistiamo - crescita, non sempre sviluppo, e crescita confusa, a volte perfino apparente... - bene, in questo contesto il ruolo dell'autore rimane insostituibile, garanzia non dico necessariamente di qualità, ma almeno di autenticità.
DDM. Puoi parlarmi di una tua composizione alla quale sei particolarmente affezionato?
MC. Ci sono opere a cui si è legati per i risultati musicali raggiunti, altre che invece testimoniano di conquiste tecniche. Non sempre le due cose convivono nello stesso pezzo: come in altre epoche storiche, generalmente le opere maggiormente orientate verso la ricerca danno poi i loro frutti musicali in lavori successivi, in cui, come dire, questo travaglio è meno visibile.
Ciò premesso devo dire che citare una composizione mi risulta impresa assai difficile. Ne citerei una per ciascuna delle categorie in cui generalmente vengono classificate.
Direi allora IN CORDE tra i lavori sinfonici, NESSUNA COINCIDENZA tra le opere di teatro musicale, CALENDARI INDIANI per la musica da camera strumentale, TEMPERATURA ESTERNA come esempio di composizione radiofonica, MANAO TUPAPAU per la musica elettroacustica e infine ALTROVE CON IL SUO NOME per le opere multimediali.
DDM. Potresti farmi un esempio pratico di un tuo brano "di ricerca", degli strumenti tecnici che esso ha dato luce e della loro applicazione in un discorso musicale?
MC. Non credo esistano, almeno per me, opere orientate verso la ricerca e opere orientate verso l'espressione: ogni composizione, per poter essere definita tale, necessariamente avrà entrambe le valenze. Detto ciò, nel percorso artistico di un compositore ci sono fasi in cui l'aspetto della ricerca può diventare prevalente, fino a comportare il "sacrificio" (non programmato, si spera) del valore artistico di alcune opere, riscattandosi poi, come ti dicevo, in lavori successivi, quando tali ricerche si metteranno naturalmente a servizio di una poetica. Ma lasciami sottolineare un aspetto. Non credo esista scoperta interessante senza l'azione stimolatrice di un obiettivo "poetico" e la pressione di una volontà espressiva. Mi è sempre capitato di fare scoperte interessanti, procedendo nel mio personale arricchimento, quando ero sotto la pressione di un desiderio, Conosco soltanto una forma impura della ricerca, del tutto finalizzata a produrre e non a spiegare, a creare e non a dimostrare.
DDM. Mi sapresti descrivere il processo creativo del compositore?
MC. Sul mio ideale tavolo di lavoro (che a volte è una stazione informatica, a volte un pianoforte, ma spesso un vero e proprio tavolo) sono le idee musicali (quella che una volta si chiamava "ispirazione") e, accanto a queste, com'è ovvio, gli strumenti compositivi.
A volte questo tavolo può assomigliare idealmente a un campo di battaglia, più sul piano concettuale che su quello fisico.
Ma mi preme dire che gli strumenti del comporre non sono delle tecniche definite una volta per tutte, non sono sistemi codificati, quanto piuttosto personali tecniche messe a punto per quel dato pezzo e che in quel dato pezzo trovano legittimazione e necessità;
quanto alle idee, mi riferisco a quel mondo immaginario, impalpabile e dai contorni indefiniti, ancora premusicale e tuttavia già dotato, se non di una forma, almeno di una intenzione, di una direzionalità. Sono immagini ancora sfumate, pronte a essere tradotte in segni ed in figure, prendendo forma e sostanza, fortemente indirizzando la dimensione artigianale del lavoro, obbligando la scrittura e le sue tecniche a ridefinirsi e canalizzarsi sui loro percorsi.
DDM. In una composizione contano più le idee musicali o il modo in cui il compositore opera su esse?
MC. Dipende da cosa intendi... per l'opera in sé, per l'opera come soggetto, quello che conta sono le idee musicali e la qualità ed efficacia della loro realizzazione; a noi che ne parliamo, ad un lettore, ad uno studente può forse interessare conoscere il modo in cui un compositore lavora, purché questa curiosità non sostituisca ma integri la conoscenza dell'opera.
DDM. Mi riferivo al concetto di sviluppo. Le idee musicali sono, come dici tu, immagini ancora sfumate che suggeriscono una certa direzionalità, ma non sono ancora musica finchè la mano del compositore non opera su esse attraverso strumenti tecnico-analitici che fanno poi della figura del compositore un mestiere, e della composizione un vero e proprio artigianato. Ovviamente le stesse idee musicali possono essere tradotte in musica in maniera più o meno efficace, e mi chiedevo se non fosse proprio questa capacità elaborativa del compositore (più che le idee) ad arricchire e a rendere interessante (o bella) un'idea musicale. In virtù del fatto che l'arte è un tipo di comunicazione particolare dove gran parte del messaggio sta nel linguaggio stesso (1), non trovi che sia semplicistico definire la poetica di un artista nelle sue idee, e che in alcuni casi sia la tecnica stessa che un autore sviluppa nel tempo a suggerirci il suo universo poetico? Le idee possono essere un importante stimolo, forse proprio quello stimolo che a volte costringe l'autore di musica a fare le notti o saltare i pasti per stare di fronte a una partitura (seguendo quell'ideale romantico di compositore...), ma a volte la loro realizzazione costringe il compositore a percorsi non progettati e a modellare su di essi il materiale di partenza. Ti capita mai di stravolgere il progetto musicale nella sua realizzazione?
MC.
Si, mi capita spesso, talmente spesso che ormai progetto con una certa accuratezza di definizione soltanto gli inizi dei pezzi che scrivo, lasciandomi così libero di percorrere gli sviluppi musicali che più assecondino le tendenze insite nelle figure iniziali, una volta che le "conosco" nella concretezza della loro manifestazione. Quanto al resto della tua domanda ammetto di avere una certa difficoltà a stabilire una netta separazione tra le idee musicali e le tecniche che daranno loro corpo. Se le idee musicali non sono i "temi" e le tecniche gli "sviluppi" (se invece lo fossero la tua tesi calzerebbe a pennello per un compositore come Beethoven o come Brahms, anche se a Bach andrebbe già un po' stretta), ma se non lo sono, allora mi domando se sia possibile stabilire con esattezza dove finisce il dominio dell'idea e dove inizia quello della tecnica, essendo la relazione così stretta, così frequenti i rimandi tra loro. Mi riferisco a una concezione più vasta del concetto di idea musicale, coincidente più con un gesto, immaginato nel suo farsi suono e realizzarsi in figure musicali e recante con sé già l'idea di un processo formale e compositivo, dunque già proiettato verso la scrittura.
D. Progetti artistici per il futuro?
MC. Sono appena tornato dalla Svezia dove, con Edison Studio, abbiamo eseguito dal vivo le musiche elettroacustiche composte per un film muto del '13, "Gli ultimi giorni di Pompei" ed ora sono in partenza per la Biennale di Venezia, per la prima della mia Sonata per pianoforte che verrà eseguita da Mauro Castellano il 28 settembre. Ho un lavoro in corso, una composizione per un percussionista persiano che verrà eseguita in novembre a Roma e, tra i progetti, il proseguimento della collaborazione iniziata due anni fa con l'attrice Sonia Bergamasco e il poeta Pasquale Panella, un'opera per bambini, un altro lavoro elettroacustico...

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"Dalla scrittura al teatro"
Intervista a Mauro Cardi di Alessandro Mastropietro
(dal programma di sala del concerto dell'11.11.2001, nell'ambito della 55a Stagione della Società Aquilana dei Concerti "B.Barattelli", ciclo "Ri-raccontare Verdi")

Mastropietro: La traiettoria compositiva di Mauro Cardi rende l'autore in questione, a mio avviso, sensibilissimo al confronto con la scrittura… se poi essa è quella magistrale, quasi "originaria" - per dirla con Derrida - dell'Otello, nel senso che essa vale tutta intera ad articolare suono e drammaturgia, penso che si tratti qui quasi di una sfida… Ti chiedo anzitutto se quest'ultima, magari, non sia una parola grossa, e forse può essere ridimensionata con il concetto di gioco che, pure, Ti è ugualmente vicino.
Cardi: Diciamo pure che come compositore la scrittura, con le sue problematiche e la sua fascinazione fatale, mi ha ossessionato, almeno fino a pochi anni fa, orientando la mia "ricerca" in modo quasi maniacale. Negli ultimi tempi, sotto spinte diverse, tra le quali il ruolo decisivo giocato dalla "scoperta" degli orizzonti timbrici e di pensiero aperti dalle nuove tecnologie, il campo dell'indagine si è notevolmente allargato, teatro incluso. Venendo al "ri-raccontare l'Otello" la sfida implicava la disponibilità a ripensare Verdi (e Verdi-Boito attraverso Sermonti) senza preconcetti, confrontandosi con quello che l'Otello rappresenta nella storia del teatro musicale (e nell'immaginario collettivo). Quando la scrittura si cimenta con materiali di provenienza storica può produrre operazioni anche artificiose ed intellettualistiche, ma quando si tocca il teatro il gioco della scrittura deve misurarsi con una tempistica che non ammette incertezze. E il caso dell'Otello è quello di un plot che combina con rara efficacia l'essenzialità della vicenda con una tessitura finissima…
M.: A proposito di teatro: è vero che le tue esperienze di teatro musicale non sono numerose, ma sicuramente lo sono quelle di un teatro dell'ascolto (i radiodrammi) e quelle, riprendendo una definizione di Donatoni, di un teatro del comporre, che nelle tue ultime cose mi sembra si faccia veramente vieppiù drammatico, incisivo… Ciò posto, come hai regolato, nello specifico, il rapporto col preesistente verdiano e col testo di Sermonti? L'hai piegato verso, appunto, una tua nuova drammaturgia…?
C.: Come accadeva in passato a quei compositori, penso a Monteverdi, certo non a Verdi, che solo occasionalmente e neanche troppo spesso si dedicavano al teatro, queste occasioni rappresentano generalmente una sorta di "summa" delle ricerche portate avanti altrove, in contesti più raccolti; in questa stessa situazione mi sono trovato anch'io: ripensare, sfruttandone i risultati migliori, a tanti lavori cameristici prodotti negli ultimi anni indirizzando la scrittura verso una teatralità lì sotterranea ma fortemente presente, qui più esplicita, pur nell'ambito di una forma, quella del melologo, che rimane teatrale sui generis. Troppo nota la trama dell'Otello perché Sermonti si soffermi più di tanto nel riraccontarla; piuttosto analizza le tre figure chiave dell'opera, alla ricerca di indizi che portino ad interpretazioni inedite. Il testo, come la musica, scorrazza così lungo l'opera, percorrendola in lungo e in largo alla ricerca di temi, psicologie, retroscena, antecedenti, sovrapponendosi spesso in questi percorsi, ma producendo anche stimolanti collisioni. La gran parte dei temi verdiani è citata nel mio lavoro: alcuni di questi temi appaiono entro le trame di un discorso musicale a cui forniscono materiale e da cui ricevono in cambio "coperture", altri invece irrompono con la risolutezza icastica di quei personaggi che non ammettono censure o chiose (e qui mi riferisco al Finale, dove sono presenti due tra i più celebri temi dell'opera: E tu m'amavi per le mie sventure e il più wagneriano Verdi del "tema del bacio"); gli uni e gli altri vengono assorbiti in un discorso musicale che rimane personale, non assumono valenze linguistiche, aspirano semmai ad una teatralizzazione del linguaggio. La parte del corno, strumento che nel mio lavoro assume un ruolo protagonistico nella punteggiatura formale dell'opera, esemplifica invece un altro tipo di operazione: una ricerca calata all'interno della scrittura di Verdi, tra le pieghe della partitura - nella "pancia" dell'orchestra, verrebbe da dire - di quegli elementi oscuri eppure fortemente costitutivi di uno stile, di quelle cellule che, una volta estratte, serviranno a ricostruire nuovi organismi, autonomi e di senso diverso, seppur geneticamente prossimi ai loro antecedenti.

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"Compositori italiani d'oggi"
Intervista di Riccardo Piacentini
Rassegna Musicale Curci - Anno L n.3 - settembre 1997

Piacentini: Quali sono stati i principali insegnanti della tua formazione di studio, accademica e non?
Cardi: Donatoni, più indirettamente, Petrassi, per brevi ma intensi episodi, Ferneyhough.
P.: Quali compositori rappresentano per te un costante punto di riferimento, positivo o negativo che sia? Accenna ai tuoi amori e alle tue idiosincrasie,
C.: Per quanto riguarda i punti di riferimento non posso che citare alcuni dei "classici":
Ligeti, Boulez, Maderna, Berio, Donatoni, Ferneyhough, Sciarrino. Citerei anche Crumb e, tra le ultime generazioni, Grisey, e fenomeni interessanti come Goebbels. Le mie idiosincrasie per i tutti neo-qualcosa, neo-spirituali compresi, per le varie categorie del post-moderno, per i minimalisti (Feldman e Reich esclusi).
P.: Quali le tue composizioni più significative? Titolo, organico, anno di composizione, committenza, luogo e data della prima esecuzione.
C.: "In Corde", per orchestra (1983-85); "Effetto Notte", per otto esecutori (1989); "Calendari Indiani", per voce femminile e dieci esecutori (1990); "Nessuna coincidenza", azione scenico-musicale in un atto per 2 soprani, tenore/recitante, attore, ensemble, elettronica (1995); "Manao Tupapau",
P.: C'è un motivo ideologico delle scelte di cui sopra? In altri termini, da che parte stai?
C.: Certamente, ma non solo. Anche poetico, intellettuale e, perché no, edonistico.
Riguardo la parte da cui starei... con una battuta direi, citando Petrassi, che sto dalla parte di quelli che sanno ancora dare "un senso di necessità" al gesto compositivo. Sto dalla parte della musica che sa ancora immaginare e ricercare, dentro e fuori di sé, qualcosa di nuovo e quindi di comunicativo. I due termini "ricerca" e "comunicazione", mi sembrano assolutamente conciliabili, naturalmente conciliabili. L'antitesi - ricerca versus comunicazione - è un falso, sbandierato per questioni di comodo. Storicamente le espressioni artistiche che hanno comunicato in maniera più forte sono sempre state quelle con un maggior spessore di ricerca le cui scoperte, linguistiche prima che tecniche, hanno poi inciso fortemente sulla storia (anche se so bene che non sempre è stato vero il contrario, non sempre la ricerca è arrivata a comunicare, qualche volta anzi ha preferito votarsi ad una splendida solitudine).
Non credo comunque alla ricerca-di-comunicazione tout court che arriva a giustificare scelte di semplificazione in nome della comunicazione, in nome di una presunta analisi dei "gusti del pubblico". In questi casi il passo verso la mistificazione è assai breve.
Ripensate (senza disconoscerle) le scelte dolorose (e a volte punitive) operate negli anni '60 e '70, capaci di guardare senza preconcetti a tutto il nuovo nel frattempo occorso, credo che abbiamo ora a disposizione un bagaglio sterminato con cui poterci esprimere liberamente e realmente comunicare.
Insomma sto dalla parte di quelli che sanno ancora guardarsi intorno, con curiosità: nel tempo (analizzando la storia e i suoi processi), come nello spazio (riconoscendo la portata di civiltà musicali che ignoravamo), osservando le altre culture, musicali e non, come le altre discipline, la scienza innanzitutto e le sue ricadute tecnologiche che stanno rivoluzionando il nostro modo stesso di comunicare fornendoci, allo stesso tempo, strumenti completamente nuovi. Non penso certo ad un compositore-scienziato, ma ad un musicista che sappia piegare, a fini espressivi, i nuovi strumenti che le altre musiche, le altre civiltà e le altre discipline gli propongono.
P.: Quali i tuoi rapporti con l'editoria musicale?
C.: Ottimi, dal punto di vista umano. Dal punto di vista della promozione invece (l'unico che ormai abbia realmente un senso, visto che per il resto del lavoro che una volta veniva svolto dall'editore: stampa, materiali d'orchestra, spedizioni, registrazioni... sono del tutto indipendente, come la maggior parte dei compositori della mia generazione e successive) invece mi dichiaro, anche qui credo come tutti, non soddisfatto. Se l'editoria musicale non saprà attrezzarsi presto vedo scenari futuri del tutto inediti, da alcuni già sperimentati con successo.

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"Compositori oggi/Incontro con Mauro Cardi: Metto a fuoco le emozioni"
di Marco Spada
l'Unità, Roma, 17.3.1990

Una cosa è certa: Mauro Cardi non ama le cose scontate. Nel suo ultimo pezzo per orchestra, Effetto notte, eseguito a Melbourne in Australia, ha immaginato il trucco, dei primordi del cinema (ricordate il film di Truffaut?) col quale si filmava di giorno con un filtro blu, e stampando la pellicola si aveva una sorta di negativo, con effetto notturno. Tradotto in suoni, il "negativo" è il risultato di una sottrazione di materiale, cosicché quello che resta (grumi di flauto, marimba. campane, gong) è come se galleggiasse su un pieno che non c'è più, asportato, cancellato. Un gioco intellettuale che si confà all'autore, riflessivo, ponderante, con attitudini scientifiche ("mi ha sempre affascinato la tavola dei numeri "casuali", perché tali non sono"), ma dotato al pari di ironia sottile, si direbbe criptica.
Cardi, classe 1955, è un altro figlio della scuola romana e di Franco Donatoni. cui riconosce la "capacità straordinaria di svilupparti la fantasia su una base logica". Finiti gli studi anche lui, come tanti altri, ha voluto capire di più ed è andato all'estero. In Olanda, dove ha vinto il "Gaudeamus Preize" nell'84 con Les Masques. E, naturalmente, a Darmstadt: "I corsi veri e propri non esistono più; tutto si svolge in un vorticoso giro di conferenze e seminari, dove hai appena il tempo di far sentire un pezzo e tentarne una spiegazione. Se non per i "ferri del mestiere", è stata comunque una grande esperienza umana. Una sorta di prova generale della carriera: devi corteggiare i musicisti perché ti eseguano e gli editori perché si accorgano di te. Oggi la promozione si deve fare in prima persona, è questo costa energie se non sei tagliato per passare la vita in salotto". Un po' di pudore non guasta nell'era del presenzia1ismo; ma, accennata, traspare una sfumatura d'orgoglio, come a dire "il tempo giudicherà". "Ma, per carità, senza i soliti plagnistei, visto che il nostro mercato non può che essere ristretto!".
Ma il pudore non è solo un fatto caratteriale, si tramuta in un principio estetico, nella reticenza a confessarsi: "Non credo sia interessante far sapere da dove muova il mio immaginario pre-musicale, perché la verifica è nell'ascolto. Preferisco conoscere dalle reazioni degli altri aspetti di me stesso che non avevo contemplato, piuttosto che sbandierare di aver pensato in un pezzo alla circolazione del sangue o al movimento degli astri". Non c'è dubbio allore che nello schieramento frontale dei compositori, Cardi si netta sulla sponda degli strutturali, degli oggettivi, dei supremi diffidenti sui "contenuti" della musica E la compagnia non è male; Bach, Rossini, Stravinsky... Quanto ai modelli più vicini: "Petrassi, Ligeti, e un'attrazione intellettuale per Stockhausen e Boulez".
E la voglia di Romanticismo, il bisogno di comunicare?: "Se per Romanticismo si intende l'emotività esibita, il gesto clamoroso che fa saltare sulle sedie, no grazie. Se si intende un'espressività che attinge ad esiti metafisici allora sono un Romantico". Va da sé che il teatro musicale, col suo armamentario di "impurità", non solletica la sua fantasia; piuttosto il balletto, forma d'arte sintetica, o le formazioni cameristiche ("scriverei sempre quartetti d'archi").
Tanta chiarezza di idee ci fa arditi per chiedere il suggello di una definizione: "La composizione è la graduale messa a fuoco di immagini pre-musicali, "raffreddate" poco a poco; qualcosa in cui, dopo il travaglio dell'elaborazione, traspaia ancora il fuoco sotterraneo che l'ha generata". Logico no?

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