Liszt per banda e piano - Il nuovo lavoro di Mauro Cardi rende omaggio al compositore
intervista di Carla Di Lena
Il Giornale della Musica, n.287/Dicembre 2011
Présence d'éléments romantiques dans l'oeuvre des compositeurs italiens d'aujourd'hiu
intervista di Carlo Boschi
in Romanticism as an Attitude, Conservatoire de Strasbourg,
settembre 2007
Intervista di Alessandra Sciortino
inedita,
settembre 2008
Intervista di Francesco Denini
Suono Sonda,
n.3 Giugno 2004
Intervista
di Ornella Rota
Suono, luglio-agosto 2004
Intervista
di Daniele Del Monaco
Biblionet - ottobre 2003
Intervista di Alessandro Mastropietro
11.11.2001
Intervista
di Riccardo Piacentini
Rassegna Musicale Curci - Anno L n.3 -
settembre 1997
Intervista
di Marco Spada
l'Unità, 17.3.1990
Intervista a Mauro Cardi, presidente di Nuova Consonanza nel biennio 1999-2000
di Alessandra Sciortino
A.S. Lei ha ricoperto la carica di presidente di Nuova Consonanza nelle stagioni 1999-2000 (con epilogo nel 2001), ma effettivamente di quali festival si è occupato rispetto all'investitura della carica, considerati i tempi di programmazione artistica?
M.C. Mi sono occupato di tutte le stagioni che cita, come anche, seppur in qualità di vicepresidente, delle due precedenti, 1997 e 1998, in collaborazione stretta col presidente di quelle due annate, Michele Dall'Ongaro.
A.S. Poiché non esiste di fatto una figura di direttore artistico presso Nuova Consonanza, in che modo è stata stilata la sua stagione in collaborazione col consiglio di amministrazione?
M.C. Il presidente di Nuova Consonanza è a tutti gli effetti il direttore artistico del festival e delle altre attività concertistiche dell'associazione. Ovviamente il contributo portato dagli altri membri del cda, come anche dai soci, può risultare importante e nella mia gestione ho cercato di coinvolgerli il più possibile, se non addirittura in qualche caso delegarli, per la progettazione di determinate manifestazioni. Ma la questione della separazione delle cariche di direttore artistico e presidente, affrontata numerose volte, rimane tuttora irrisolta.
A.S. Il suo motto, condiviso col suo predecessore, e dunque in linea col vissuto più recente di Nuova Consonanza, è stato no hay caminos/ hay que caminar, come scrive nel numero 1 del marzo 1999 su "nc news". Vuol spiegare le ragioni di questo motto?
M.C. Il riferimento a Luigi Nono, che riprendeva un verso di Tarkowskij, ci sembrava emblematico nella realtà culturale del 1999 (come lo è forse ancora nel presente 2008). Voleva essere un richiamo a un'etica, e a una poetica, che si fondassero sull'impegno di proseguire ostinatamente lungo un percorso, anche quando questo percorso non fosse più chiaramente visibile, ma accidentato e confuso quanto mai prima, anche quando sembrava che in verità non ci fossero più strade da percorrere, esaurite quelle mete ideali, a tratti utopistiche, che avevano guidato la musica contemporanea nell'immediato dopoguerra.
A.S. La musica come forma di pensiero (dei musicologi, dei critici) e la musica scritta, la musica da suonarsi e la musica da vedere, la musica da fruire. Quale dialogo c'è, per quella che è la sua esperienza (sia diretta, e cioè da presidente, sia indiretta) tra questi ambiti del sapere musicale in Nuova Consonanza?
M.C. Nuova Consonanza è prevalentemente un'associazione di compositori. Lo spazio e il dialogo che, all'interno dell'associazione, viene riservato ai diversi ambiti del sapere e del fare musicale dipende dal momento storico, oltre che dalle volontà dei cda che si succedono. Credo che in questa fase Nuova Consonanza abbia il dovere di interrogarsi a fondo sul suo ruolo, creando maggiori occasioni di discussione e riflessione, all'interno e all'esterno.
A.S. In un paese in cui le riforme hanno origine dalla fine (vedi la riforma dei conservatori) per confrontarsi poi con lacunose voragini a monte, in quale modo si può effettuare una rivoluzione copernicana che parta dal rapporto col fruitore/ascoltatore?
M.C. Coinvolgendo il fruitore, ma soprattutto, ancor prima, andando a "scovarlo" negli ambienti culturalmente e socialmente vicini alla nostra realtà di compositori. Penso alle scuole, alle università, ai conservatori (cosa assai poco ovvia, come si potrebbe ingenuamente e sensatamente pensare...), ai musei, ai centri di ricerca, ai poli culturali, ai centri sociali.
A.S. Crede che la secolarizzazione di uno stimolo percettivo di tipo visivo, fortemente coadiuvato dalla tecnologia, abbia in qualche modo disabituato l'ascoltatore alla sensibilità uditiva? In effetti più frequente è la presenza di pubblico presso quegli spettacoli di plurima stimolazione sensoriale quale anche l'opera lirica.
M.C. É vero, e lo riscontro ogni qual volta vedo accrescere l'appeal e le presenze di pubblico ai concerti che impiegano mezzi multimediali. Dobbiamo riflettere attentamente su questo fenomeno.
A.S. La musica colta del teatro d’opera ha raccolto per tradizione il pubblico più in vista, sfilate di nomi prestigiosi divenendo un appuntamento ‘sociale’ ancor prima che culturale (ma rimanendo pur
sempre, almeno, pretesto culturale). Lo stesso non è accaduto nell’ambito del contemporaneo: non si crea l’evento culturale, l’interesse, la curiosa e più alta attenzione. Perché, a suo avviso?
M.C. Ma negli anni '60 e '70 lo era! anche se pur sempre in un ambito di élite culturale. Il legame con gli intellettuali e gli altri artisti si è poi andato perdendo col tempo, quel senso di condivisione di un percorso si è sfilacciato in innumerevoli strade solitarie. Va ricucito secondo principi e linee nuove; nella nostra breve esperienza abbiamo tentato di invitare e coinvolgere attivamente intellettuali, ricercatori e liberi pensatori delle più diverse estrazioni, come testimoniano, ad esempio, gli atti dei convegni realizzati.
A.S. Quanto crede sia importante per un avvicinamento all'uditorio la partecipazione attiva del pubblico che entra a far parte dell'opera? Nell'ambito della musica contemporanea (esclusa la parentesi di happening e performance in cui comunque la sua partecipazione è più che altro passiva, ormai datata e anacronistica) ci si è forse allontanati da ciò mentre l'arte visiva sembra sempre più incuriosire sedurre e rendere attivo o spettatore.
M.C. E' importante, ma rappresenta una ricerca ancora tutta da compiere.
A.S. E' forse questa la malattia di cui soffre la musica "non applicata", l'assenza di spettacolarizzazione?
M.C. Sarebbe facile rispondere "si". Di fatto va tuttavia anche considerato, per la riuscita di una manifestazione concertistica, tutta una serie di componenti ormai indispensabili per un pubblico esigente e sollecitato da innumerevoli richiami. Penso alla qualità intrinseca delle musiche presentate e degli interpreti che le propongono, ma anche all'idea tematica che collega i brani programmati, penso all'acustica della sala, alla cura delle luci, alla drammaturgia del concerto in ultima analisi... tutti elementi che conferiscono a un concerto quel valore aggiunto che lo rende uno spettacolo, pur senza far necessariamente ricorso a mezzi multimediali.
A.S. «Forse siamo arrivati a considerarci filosoficamente contemporanei di tutte le precedenti culture» - scrive George Crumb nel 1980 sulla rivista "The Kenyon Review" il cui testo è peraltro riportato nel programma del 1999. Quanto pesa o meno questa globalizzazione culturale? Dipende solo da una difficile e poco distaccata analisi del presente come in tutte le epoche? O esiste una vera pluralizzazione di tendenze? Oppure, ancora - citando sempre Crumb - comoedia finita est?
M.C. Comoedia finita est: su questo, se devo essere onesto e disincantato, nutro pochi dubbi. Eppure questo nostro occidente proclama da oltre cent'anni questa fine di cui si perpetua all'infinito, producendo ancora capolavori, l'ultimo canto del cigno. Siamo insomma abituati a considerarci, in ambito culturale ed artistico, postumi a noi stessi, sin dalla nascita. Detto ciò dovremmo chiudere qui, eppure... eppure...Mi viene in mente quel passo di Baudrillard, cito a memoria, in cui riferisce di quel tipo che, nel corso di un'orgia, con fare ammiccante, dice con concupiscenza alla compagna di giochi: hai da fare dopo?
Su questa insaziabilità, se supportata da reale necessità di espressione (nel senso petrassiano), possiamo contare per essere ancora sorpresi da eventi inattesi e imprevedibili.
A.S. Così si legge nell'introduzione del primo ed unico numero della rivista "Ordini" datata luglio 1959: «Il mondo contemporaneo è fondamentalmente scisso, ma allo stesso tempo tende all'integrazione.
Così accade che per un artista d'oggi non basta essersi espresso egli non può rintanarsi nel proprio hortus conclusus egli deve affrontare quanto più gli è possibile, il contatto l'urto, con altri campi dell'esistere con altri ordini di realtà». Questa riflessione suona attuale. Quanto è cambiata dunque concretamente la realtà musicale da allora ad oggi?
M.C. Poco, sembrerebbe, con la differenza che la presenza dell'artista di oggi nella società non è più soltanto un imperativo morale, come quello che ispirava negli anni '50 e '60 gli artisti più sensibili e impegnati (ancorché, diciamolo, un po' coccolati dalle istituzioni che, seppur non integrandoli fino in fondo, lasciavano loro ampi spazi di azione), ma, questa presenza, rappresenta una realtà, assai più autentica e concreta, anche se forse meno estetica, in molti casi una scelta obbligata.
A.S. In quale ambito musicale circoscritto si colloca nel nuovo millennio l’operato di Nuova Consonanza?
M.C. Si occupa, e secondo me dovrebbe occuparsi maggiormente, avendo la disponibilità di maggiori risorse da un lato e maggior coraggio dall'altro, della proposta di realtà e pensieri musicali nuovi e in qualche modo sperimentali (seppur in un'accezione diversa da quella delle avanguardie storiche).
Il nome di un'associazione storica come Nuova Consonanza, che a livello europeo è ancora simbolo di autorevolezza, come ho potuto verificare nei diversi contatti avuti da presidente, andrebbe speso tutto per questa causa.
Quello che deve evitare, pena la sua sopravvivenza, è la tentazione, comoda ma fatalmente perdente alla distanza, a divenire una piccola società di concerti.
A.S. La sua stagione 2000-2001 ha goduto delle sovvenzioni dell’Unione Europea. In che modo si gestisce un progetto europeo e quante volte, a sua conoscenza, ne è stato presentato e approvato uno nella storia dell’associazione?
M.C. Credo siano state tre le stagioni sovvenzionate da progetti europei (Caleidoscopio prima, Musica Duemila poi), sotto la presidenza Dall'Ongaro e poi Cardi. Non mi risulta siano stati finanziati altri festival successivamente.
L'impegno per partecipare a quei bandi europei, e poi per realizzarli secondo le norme imposte a livello comunitario, lo ricordo sempre estremamente oneroso, sotto ogni profilo. A posteriori posso dire che comunque ne valeva la pena, per l'entità dei contributi e per l'apertura internazionale che rappresentarono ogni volta.
A.S. Lei ha ricoperto il ruolo di presidente e, a tutt’oggi, quello di socio. Qual è oggi il ruolo operativo dei soci dell’associazione?
M.C. Sono un semplice socio, anche se spesso coinvolto, come compositore, in diverse iniziative dell'associazione.
A.S. Qual è la stagione ideale, ipotizzando un pubblico ideale e delle risorse utopiche?
M.C. Quella in cui, dopo aver operato le scelte artistiche e prima ancora tematiche, le une e le altre possibilmente coraggiose e non appiattite su tendenze alla moda, si potessero poi mettere in condizione i musicisti e tutti gii artisti invitati di potersi esprimere al meglio delle loro possibilità.
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"Mauro
Cardi: Child"
Intervista a Mauro Cardi di Francesco Denini
per "SuonoSonda:
rivista di ricerca musicale"
N.3 - Giugno 2004
F.D. Child è
un brano per clarinetto basso del novembre
del 2003
che porta una dedica particolare.
M.C. È dedicato al mio piccolo,
di un anno e mezzo.
F.D.
Una dedica
che, nella sua eventuale connessione con
il titolo, potrebbe anche far pensare a campi
d’esperienza non estranei a una qualche
‘lente auditiva’ implicata nella
forme dinamiche dei suoni ...o è una
mia troppo libera associazione, un’inchiesta
troppo insistente?
M.C.
Da quando è
nato mio figlio tutto il mio rapporto col
tempo si è ridefinito. Cercare di
adeguarsi ai suoi tempi, ripensare le mie
giornate, toccare con mano la velocità
del tempo... Mi diceva un mio amico compositore:
‘vedrai, ora che sei diventato padre
farai in pochi mesi l’esperienza di
tutto l’evoluzionismo umano’.
La lente del tempo, appunto.
F.D.
Bene,
siamo in tema, allora ...e però entriamo
così naturalmente in quelle zone della
formatività in cui esperienze emozionali
e sottosuoli dell’intenzione s’intrecciano
con la forza spontanea, concreta e quotidiana
della vita. Qualcosa, di cui non è
poi così facile parlare...
M.C.
Non lo è, infatti.
E non lo è per una strana forma di
pudore tutta maschile... ma, aggiungo, non
lo è anche per scelta deliberata.
Ho sempre pensato che quando si parla della
propria musica si deve lasciare alle spalle
l’emotività, i sentimenti, il
vissuto ecc. ... perché ineriscono
a sfere assai diverse e perché possono
risultare fuorvianti.
Non amo indirizzare l’ascolto inibendo
di conseguenza una libera ‘navigazione’
personale dentro l’opera. In altre
parole, ho antipatia per quei programmi di
sala che ‘spiegano’ un’opera
illustrandone i contenuti, col risultato
di condurre per mano l’ascoltatore
nella ricerca di quello che (parola dell’autore)
presume ci sia da vedere. Se così
indirizzata l’esperienza dell’ascolto
si riduce a qualcosa di simile a quanto accade
nel campo delle arti figurative, quando,
entrando in una cattedrale o in un museo
per la prima volta, con una guida in mano,
passiamo il tempo a trovare conferme più
che fare scoperte. Tutto ciò premesso,
però - chissà forse proprio
in questo il bambino mi ha cambiato... insegnandomi
la sua naturalezza spudorata dei sentimenti...
- propongo di continuare ad esplorare lungo
questo margine sottile tra l’esistenziale
e l’estetico.
F.D.
Nulla
è più naturale che sentire
anche solo presso la semplice immagine di
un bambino l’aprirsi di potenzialità
energetiche improvvise, profondissime: forse
è qualcosa di simile che la musica
del Novecento ha inseguito in termini estetici
. Ma è altresì possibile che
si profili oggi anche un’altra nuova
sfida, forse anche in ragione d’una
spinta del pensare femminista e democratico,
una sfida, concernente una qui davvero sottilissima
facoltà di vivere tali dimensioni
in termini più concretamente quotidiani,
e senza perdere però un legame in
controluce con l’immenso bagaglio della
cultura musicale occidentale? Non è
descrivibile anche così questo margine
lungo cui Child sembra portarsi?
M.C.
Gli
occhi del bambino sono costantemente aperti
alla stupefacente scoperta del mondo. Noi
che dello stupore abbiamo perso il senso
e il valore, abbiamo perso quello sguardo.
Lo ritrovo negli occhi di mio figlio, ma
ritrovare e rileggere quegli sguardi stupiti
è già di per sé un’operazione
intellettuale, anche se può essere
colma d’affetto. Sento, anche solo
a parlarne, che il solco tra l’arte
e la vita rimane profondo, incolmabile. Perché
quando noi parliamo di arte, quando parliamo
di musica, siamo alla ricerca di un senso,
di un percorso, di una poetica... un bambino
la musica semplicemente la vive. E della
musica vive quanto più lo riporta
ad esperienze fisiologiche, ne vive quindi
il ritmo in primis, al suo stato di natura.
Non cerco dunque una sintesi impossibile,
come non cerco di riversare l’una cosa
nell’altra. Ho sempre creduto, come
dice Derrida citando Picon, che “per
l’arte moderna, l’opera non è
espressione, ma creazione: permette di vedere
quello che non è stato visto prima,
dà forma invece di rispecchiare”.
L’arte rimane un artificio, ma vivere
fino in fondo le emozioni implica trasmetterle
intatte, comunicarle... condividerle infine.
F.D.
Ed è
qui che mi sembra stia lo specifico (se mi
passi un po’ di pesantezza teorica)
che pone Child al centro della questione
temporale: la forza aoristica d’un
microtema come quello di Ennio Morricone
si riverbera nel tempo quasi fosse una traccia
scritta nella memoria materiale del suono.
La scrittura vi si sottopone come accadrebbe
all’immagine fulminea d’un child,
alla riverberazione d’un istante riconoscibile,
d’un riconoscimento istantaneo pur
nel differimento (un puer archetipico prossimo
a quello di cui si parlava nel nostro I numero
con Ercolani e Frisa); qualcosa che sembra
travagliare gli ipogei della categoria del
‘nuovo’ ricollegandola a quelle
esperienze di Momentform che, da Debussy
a Stockhausen e Scelsi, sembrano costituire
quasi un’unica secolare inchiesta.
La lente del tempo si mostrerebbe qui come
il tentativo d’approssimarsi a una
forza dionisiaca che è al pari propagazione
dell’opera e maschera della sua origine
(e dell’origine in generale come ‘ordine
delle coesistenze’), ovvero come differenza,
differimento del e nel tempo, nel senso che
è proprio alla tua citazione derridiana;
ma, il tutto ormai in controluce, filtrato
come in certe visioni quotidiane di Vermeer
attraverso la dismissione d’ogni elezione
intellettuale, autonomo e pure in dialettica
con la vita, vita stessa compossibile alla
vita.
M.C.
La complessa
teorizzazione la passo, perché filtrata
dal filtro vermeeriano. La folgorazione dionisiaca,
se perde calore, acquista tuttavia verità,
si fa immanente, fino al quotidiano. Penso
alla quotidianità della scrittura,
che non era proprio la quotidianità
di Scelsi, ad esempio. La scrittura come
esperienza vissuta, fisicamente, la scrittura
come un andare verso. E penso ancora a Derrida
che chiosa il Flaubert di: “non si
può pensare a scrivere, se non si
è seduti”, chiarificando e restituendo
in modo esemplare: “la scrittura è
fin da principio e per sempre qualche cosa
su cui ci si china”.
E la fluidità della scrittura - che
non è detto sia necessariamente scorrevolezza
- sento che mi appartiene, la fluidità
di un tratto in movimento che si alimenta
anche e soprattutto di discontinuità,
di gesti fuori dalle righe, per fagocitarli
dopo averne tratto linfa, per trovare o creare
senso partendo dalle immagini fulminee di
cui parlavi. Con Deleuze: “Bisogna
provare dapprima l’effetto violento
di un segno, in modo che il pensiero sia
quasi costretto a cercarne il senso”.
F.D.
E quindi, allora, Derrida o Deleuze? Un pensiero
in cui la scrittura scopre la sua forza trascendentale
rispetto alla phoné o un’ontologia
differenziale del sensibile che ha implicato
per un’intera area di musicisti un
ritorno dalla scrittura al suono (penso a
Mureil, Grisey, Levinas, Dufourt) e che sembra
riaprire oggi una riconsiderazione di quelle
scritture aperte all’estemporaneità
che hanno percorso la musica dalla fine degli
anni ‘50 sino agli anni ‘70?
In questo senso talvolta sospetto non tanto
che sia la musica a rincorrere percorsi che
la filosofia ha compiuto ‘più
propriamente’ presso la scrittura,
ma che sia la filosofia ad avere per ora
mancato l’appuntamento con i problemi
profondi sollevati dalla scrittura musicale.
La scrittura musicale sembra comportare tratti
comuni alla scrittura verbale in rapporto
alla capacità di trascendimento rispetto
alla phoné, liberando la musica dai
gioghi della memotecnica per fornirle una
memoria più storicamente trascendentale
e un’articolazione che apra a futuri
mondi alternativi, ma la scrittura risulta
essere anche il tratto più evidentemente
distintivo della cultura occidentale rispetto
alle altre culture musicali, non facilmente
scindibile da quel fono-logo-centrismo che
Derrida coglie al centro delle illusorie
presenze della metafisica occidentale. In
tale chiasmo, se c’è, come pare,
dove si nasconderebbe l’ombra di Dioniso?
M.C.
Il
terreno si fa scivoloso, accidentato... eppur
sembra percorrere, sotto altre angolazioni,
percorsi collaudati, contrapposizioni storicizzate
ancorché sempre fatalmente presenti.
I compositori citati, non a caso provenienti
tutti dallo stesso movimento culturale, sono
quanto di più interessante ha saputo
esprimere l’ultimo scorcio di Novecento.
Ma, se condivido la tua analisi di un percorso
che segna un ritorno dalla scrittura al suono,
personalmente lo sento incompleto se non
diciamo del punto finale a cui perviene,
a cui aspira a pervenire: la scrittura del
suono. Senza la quale Grisey non sarebbe
Grisey, Mureil non sarebbe Mureil... e la
proposizione del suono sarebbe relegata a
mera contemplazione del suono stesso. In
altre parole, l’epifania del suono
rimane a mio avviso un oggetto vuoto, pur
nella sua bellezza, se privato di una contestualità
e astratto da quella dialettica che, nelle
diverse forme,ha da sempre caratterizzato
la nostra cultura per comunicare, narrare,
testimoniare...
F.D.
Contestualità,
comunicazione e testimonianza si contrapporrebbero
così ad ogni pura epifania del suono,
riportando l’ altro all’intenzione,
l’inconscio alla coscienza, il tirannico/creativo
puer aeternus all’archetipo del senex
come saggio/sterile Signore del Tempo. Per
Freud è l’uccisione del ‘narcisismo
primario’ che da spazio alla vita e
al desiderio. Sono temi che Bambini nel tempo,
la scorsa mostra modenese curata da Sergio
Risaliti e Michela Scolaro, ha ritrovato
lambiti nella più recente arte visuale
(sino al caso milanese dei bambini di Catelan).
Lo sfondo mitico di tali suggestioni concorre
a una più ampia conciliabilità
tra consequenzialità causale e indeterminazione
degli elementi materiali o, su altri piani,
tra l’esperienza storica e una visione
pluralista della Modernità (in un
modo che era stato già focalizzato
da Manzoni e che si dovrebbe riconoscere
al pensiero sulla storia e sulla scrittura
di Dufourt). Ma il crinale che si verrebbe
a delineare - lo stesso che individuavi tra
prima infanzia ed evoluzionismo umano, tra
artificio ed emozioni, tra storia e quotidianità,
tra immediatezza del suono e trascendentalità
storica della scrittura – non sembra
rimandare ad una gradazione tra disponibilità
all’ascolto fenomenico e partecipazione
ai contesti del far musica, penso a qualcosa
di parallelo alla scala ordine/disordine
proposta da Grisey (ne propongo un modellino
nella pagina che segue)?
M.C.
Gradazione:
ecco, partiamo da qui, come condizione che
renda accettabile un’analisi posta
in questi termini; perché di tutti
i gradi d’ordine di una scala della
percezione nessuno rende conto in sé
di un ascolto reale, che vive solo in quella
dinamica temporale in cui piani diversi si
alternano e intersecano divenendo dialetticamente
efficaci laddove, si intende, incontrino
un pensiero compositivo organizzato formalmente.
Ma tutto ciò è accademia. Da
compositore, e vorrei disperatamente parlare
solo di quanto conosco con i sensi oltre
che con la ragione, da compositore non posso
non annotare che gli schemi di Grisey, ancorché
interessanti e in buona parte condivisibili,
rimangono al di là dell’opera
musicale, opere di Grisey comprese. Perché
la tabella relativa ai gradi d’ordine
del suono nel tempo, che vorrebbe essere
oggettiva, collocandosi sul terreno “neutro”
dell’oggetto musicale in sé,
è appunto relativa al suono e non
alla musica; mentre la tabella dei piani
d’ascolto si colloca evidentemente
al livello “estesico”, quindi
oltre l’opera, tra l’altro indagando
su di un fenomeno, quello percettivo, soggetto
ai mutamenti che la storia, e la geografia,
determinano sull’ascolto musicale.
L’intuizione di una forma si alimenta
di diversi livelli di complessità,
in un gioco continuo tra prevedibilità
e imprevedibilità, ordine e caos,
che il compositore ordisce, e in cui l’ascoltatore
viene proiettato. In questo senso direi che
tutto è contesto, così come
tutto è codice, se siamo all’interno
di un pensiero critico che fa un uso strumentale
della retorica. In questo senso non c’è
grado di intelligibilità che non sia
perseguito e programmato (che poi sia raggiunto
e soddisfatto… è tutt’altro
discorso). Infine solleverei dubbi su eccessive
semplificazioni. Infatti, se l’eccesso
di struttura può produrre caos sul
fronte percettivo quando, fideisticamente,
estende sul dominio della forma un operare
costruito sul dominio dei numeri, va incontro
a fallimenti analoghi chi deduce un metodo
compositivo da uno studio sulla percezione.
In verità sappiamo ancora molto poco
su come funziona il cervello umano, e ancor
meno sul fenomeno della percezione musicale.
Se la musicoterapia e in generale tutti gli
studi sulla percezione e sugli effetti della
musica sull’uomo utilizzano metodi
rigorosi, l’atto creativo in sé
rimane in buona misura avvolto da mistero,
anche quando è irrobustito da conoscenze
scientifiche. Detto ciò, sono però
d’accordo con te nell’individuare
l’anello di congiunzione tra l’opposizione
immediatezza del suono/trascendentalità
della scrittura da un lato e la sua ricaduta
sull’ascolto dall’altro in un
atto di volontà.
La disponibilità di cui parli è
la condizione necessaria perché una
qualsiasi forma di comunicazione abbia luogo.
E la comunicazione che a noi interessa è
dinamica, anche a rischio dell’incoerenza.
Un criterio che va pericolosamente diffondendosi,
parallelamente all’avvenuta mercificazione
dell’arte, appare quello di giudicare
oggi anche la nuova musica sotto il profilo
della sua presunta efficacia. Una musica
efficace ad accompagnare una sequenza di
immagini, a raccontare una storia, a memorizzare
un marchio, a indirizzare una scelta, a condizionare,
unire, dividere… ma anche trattando
di musica “colta” viene sempre
più spesso adottato un criterio simile.
«Questa musica funziona» può
essere un giudizio gratificante che sotto
cela un pensiero totalitario di chi presume
di individuare in un’opera la sua adesione
a un gusto o a una categoria definita e giudicarla
di conseguenza. Chi fa ricerca, in senso
scientifico, tecnico o anche espressivo,
non può essere ricondotto a categorie
e gusti condivisi. Né a tabelle di
sorta. Viene da chiedermi: nel 1822 la Sonata
op.111 “funzionava”?
F.D.
Come
ridisegneresti allora in questo ambito l'intero
rapporto tra opera e tempo?
M.C.
Riferendomi
a Child, la presenza tematica di citazioni
da Morricone
è già un’operazione sul
tempo, utilizzando infatti come materiale
costruttivo del lavoro frammenti musicali
che rimandano ad una memoria collettiva e
condivisa. Tanto più risultano riconoscibili,
tanto meglio le citazioni supportano uno
sviluppo musicale che sposta l’attenzione
sulla loro trasformazione e sulle operazioni
temporali, divenendo pretesti per percorsi
formali. La nostra memoria di quei temi garantisce
di un’eventuale complessità
nel loro trattamento nel tempo. Ma la musica
sfida la vettorialità del tempo a
più livelli. Vorrei riferirmi a un
grafico, tratto da un mio breve saggio del
1985 , che esemplificava, in maniera volutamente
schematica, alcuni percorsi all’interno
di un flusso di processi compositivi. Nel
grafico ogni movimento verso sinistra sull’asse
x rappresenta un movimento a ritroso nel
tempo. Sul piano della scrittura sono del
tutto abituali i processi che, portando avanti
lo sviluppo musicale, procedendo quindi fatalmente
in avanti nel tempo, in realtà, ripetendo,
rileggendo, retrogradando i materiali, di
fatto tornano al tempo passato. O per lo
meno alla memoria di questo tempo passato.
Storicamente gran parte delle tecniche compositive
si sono sviluppate proprio a partire da questa
possibilità di procedere nei due sensi
sull’asse temporale, fondandosi sull’artificio
di una scomposizione del tempo in durata,
operando quindi con una dimensione del tutto
quantitativa del tempo.
Ma tornando al rapporto opera-tempo, quando
l’ordine naturale si ristabilisce,
per così dire, quando l’opera
riacquista una sua dimensione temporale naturale,
prendendo vita in una pubblica esecuzione
ad esempio, allora percepiamo il tempo organizzato
nell’opera. Percepiamo se le strategie
messe in atto dall’autore nel tessere
le sue trame abbiano prodotto senso, se la
“finalità” perseguita
(che Kant pone nel soggetto riflettente come
condizione di possibilità oggettiva
del giudizio di gusto) risulti manifesta.
È, se mi consenti, l’epifania
della forma che si rivela, è il momento
della verifica, spietata perché incontrovertibile
nel suo hic et nunc, di un’opera lungamente
immaginata a “tempo sospeso”
e “addomesticato”… e poi
calata finalmente nel reale. È anche,
infine, il momento del distacco e della nascita.
E qui l’analisi non ci sorregge più
perché, soprattutto, percepiamo la
qualità del tempo.
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"L'alternanza
di giochi e regole"
Intervista a Mauro Cardi di Ornella Rota
per la rivista "Suono"
N.370 - Luglio/Agosto 2004
TORNA
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"Le
strategie del comporre"
Intervista a Mauro Cardi di Daniele Del Monaco
per la rivista online "BiblioNet"
Daniele
Del Monaco. Qual'è stato
il tuo percorso artistico?
Mauro Cardi. Dopo regolari
studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia
mi sono perfezionato con Franco Donatoni
(e questo è stato un incontro determinante
per tutti gli sviluppi futuri). Sono stato
a Darmstadt nel 1984, riportando una somma
delusione se confrontavo l'opinione formata
sui racconti o sulle cronache degli anni
'50, con il degrado della realtà dell'84.
Molto più interessanti sono state
le esperienze olandesi, per la apertura dell'ambiente
ed il livello delle formazioni che ho avuto
modo di conoscere; sono stato selezionato
o premiato a diverse edizioni del Gaudeamus
e da lì si sono avviati esperienze
per me estremamente formative. Nel 1989 sono
stato per oltre un mese in Australia, toccando
con un piccolo tour le principali città.
Negli anni '80, insomma, ho cercato di farmi
un mestiere, maturando convinzioni e aspettative,
in un percorso abbastanza comune ai compositori
della mia generazione. Ma già sul
finire degli anni '80, pezzo dopo pezzo,
tutto lo scenario della musica contemporanea
iniziò a cambiare. Le istituzioni
roccaforti della nuova musica iniziavano
a perdere importanza e credibilità;
la RAI, che aveva scritto molte pagine della
storia della musica del secondo Novecento,
chiudeva le sue orchestre e diede avvio a
un'inesorabile cancellazione della nuova
musica nella programmazione radiofonica;
gli editori, che erano stati un punto di
riferimento e il principale promotore della
nostra musica, entravano uno dopo l'altro
in crisi, fino alla inconsistenza attuale.
Era d'obbligo rivedere e mettere in crisi
aspettative e atteggiamenti.
Io fino al 1990 mi sono dedicato esclusivamente
alla musica strumentale, poi una serie di
circostanze esterne hanno prodotto un allargamento
degli orizzonti facendomi avvicinare al teatro
musicale (una commissione dell'Accademia
Filarmonica Romana del 1995), alla musica
elettroacustica (commissioni RAI e Centro
Armando Gentilucci, corso all'IRCAM nel 1995)
e negli ultimi anni ad esperienze in continua
evoluzione (l'uso delle tecnologie, la musica
e gli strumenti di matrice etnica, una ritrovata
esperienza come esecutore su strumenti MIDI...).
Ma al di là dell'allargamento degli
orizzonti musicali e dei mezzi espressivi
e tecnologici a disposizione è l'idea
stessa di compositore che andava necessariamenti
rivista, per approdare a qualcosa di sicuramente
meno definito e meno consolatorio, ma più
realisticamente e radicalmente calato nel
presente, pur con tutte le perdite dolorose,
le illusioni cadute in un'epoca di crisi.
Sono stato Presidente di Nuova Consonanza
dal 1999 al 2001 e spero di aver dato un'idea,
con la programmazione realizzata in un triennio,
di questa difficile, incoerente, problematica,
ma ancora estremamente ricca e sfaccettata
realtà della musica di oggi. E mi
rimane, rafforzato negli anni, un forte senso
di curiosità per gli sviluppi futuri.
DDM. Pensi che l'esigenza,
tipica dei nostri giorni, di ricollocare
la figura del compositore all'interno di
un contesto culturale comporti anche una
ristrutturazione del concetto stesso di "musica
d'autore"?
MC. Non credo. La ricollocazione,
come dici tu, della figura del compositore,
è nei fatti. Ma nella crescita esplonenziale
degli autori, quindi delle musiche e della
diffusione delle musiche a cui assistiamo
- crescita, non sempre sviluppo, e crescita
confusa, a volte perfino apparente... - bene,
in questo contesto il ruolo dell'autore rimane
insostituibile, garanzia non dico necessariamente
di qualità, ma almeno di autenticità.
DDM. Puoi parlarmi di
una tua composizione alla quale sei particolarmente
affezionato?
MC. Ci sono opere a cui
si è legati per i risultati musicali
raggiunti, altre che invece testimoniano
di conquiste tecniche. Non sempre le due
cose convivono nello stesso pezzo: come in
altre epoche storiche, generalmente le opere
maggiormente orientate verso la ricerca danno
poi i loro frutti musicali in lavori successivi,
in cui, come dire, questo travaglio è
meno visibile.
Ciò premesso devo dire che citare
una composizione mi risulta impresa assai
difficile. Ne citerei una per ciascuna delle
categorie in cui generalmente vengono classificate.
Direi allora IN CORDE tra i lavori sinfonici,
NESSUNA COINCIDENZA tra le opere di teatro
musicale, CALENDARI INDIANI per la musica
da camera strumentale, TEMPERATURA ESTERNA
come esempio di composizione radiofonica,
MANAO TUPAPAU per la musica elettroacustica
e infine ALTROVE CON IL SUO NOME per le opere
multimediali.
DDM. Potresti farmi
un esempio pratico di un tuo brano "di
ricerca", degli strumenti tecnici che
esso ha dato luce e della loro applicazione
in un discorso musicale?
MC. Non credo esistano,
almeno per me, opere orientate verso la ricerca
e opere orientate verso l'espressione: ogni
composizione, per poter essere definita tale,
necessariamente avrà entrambe le valenze.
Detto ciò, nel percorso artistico
di un compositore ci sono fasi in cui l'aspetto
della ricerca può diventare prevalente,
fino a comportare il "sacrificio"
(non programmato, si spera) del valore artistico
di alcune opere, riscattandosi poi, come
ti dicevo, in lavori successivi, quando tali
ricerche si metteranno naturalmente a servizio
di una poetica. Ma lasciami sottolineare
un aspetto. Non credo esista scoperta interessante
senza l'azione stimolatrice di un obiettivo
"poetico" e la pressione di una
volontà espressiva. Mi è sempre
capitato di fare scoperte interessanti, procedendo
nel mio personale arricchimento, quando ero
sotto la pressione di un desiderio, Conosco
soltanto una forma impura della ricerca,
del tutto finalizzata a produrre e non a
spiegare, a creare e non a dimostrare.
DDM. Mi sapresti descrivere
il processo creativo del compositore?
MC. Sul mio ideale tavolo
di lavoro (che a volte è una stazione
informatica, a volte un pianoforte, ma spesso
un vero e proprio tavolo) sono le idee musicali
(quella che una volta si chiamava "ispirazione")
e, accanto a queste, com'è ovvio,
gli strumenti compositivi.
A volte questo tavolo può assomigliare
idealmente a un campo di battaglia, più
sul piano concettuale che su quello fisico.
Ma mi preme dire che gli strumenti del comporre
non sono delle tecniche definite una volta
per tutte, non sono sistemi codificati, quanto
piuttosto personali tecniche messe a punto
per quel dato pezzo e che in quel dato pezzo
trovano legittimazione e necessità;
quanto alle idee, mi riferisco a quel mondo
immaginario, impalpabile e dai contorni indefiniti,
ancora premusicale e tuttavia già
dotato, se non di una forma, almeno di una
intenzione, di una direzionalità.
Sono immagini ancora sfumate, pronte a essere
tradotte in segni ed in figure, prendendo
forma e sostanza, fortemente indirizzando
la dimensione artigianale del lavoro, obbligando
la scrittura e le sue tecniche a ridefinirsi
e canalizzarsi sui loro percorsi.
DDM. In una composizione
contano più le idee musicali o il
modo in cui il compositore opera su esse?
MC. Dipende da cosa intendi...
per l'opera in sé, per l'opera come
soggetto, quello che conta sono le idee musicali
e la qualità ed efficacia della loro
realizzazione; a noi che ne parliamo, ad
un lettore, ad uno studente può forse
interessare conoscere il modo in cui un compositore
lavora, purché questa curiosità
non sostituisca ma integri la conoscenza
dell'opera.
DDM. Mi riferivo al
concetto di sviluppo. Le idee musicali sono,
come dici tu, immagini ancora sfumate che
suggeriscono una certa direzionalità,
ma non sono ancora musica finchè la
mano del compositore non opera su esse attraverso
strumenti tecnico-analitici che fanno poi
della figura del compositore un mestiere,
e della composizione un vero e proprio artigianato.
Ovviamente le stesse idee musicali possono
essere tradotte in musica in maniera più
o meno efficace, e mi chiedevo se non fosse
proprio questa capacità elaborativa
del compositore (più che le idee)
ad arricchire e a rendere interessante (o
bella) un'idea musicale. In virtù
del fatto che l'arte è un tipo di
comunicazione particolare dove gran parte
del messaggio sta nel linguaggio stesso (1),
non trovi che sia semplicistico definire
la poetica di un artista nelle sue idee,
e che in alcuni casi sia la tecnica stessa
che un autore sviluppa nel tempo a suggerirci
il suo universo poetico? Le idee possono
essere un importante stimolo, forse proprio
quello stimolo che a volte costringe l'autore
di musica a fare le notti o saltare i pasti
per stare di fronte a una partitura (seguendo
quell'ideale romantico di compositore...),
ma a volte la loro realizzazione costringe
il compositore a percorsi non progettati
e a modellare su di essi il materiale di
partenza. Ti capita mai di stravolgere il
progetto musicale nella sua realizzazione?
MC. Si, mi capita spesso, talmente
spesso che ormai progetto con una certa accuratezza
di definizione soltanto gli inizi dei pezzi
che scrivo, lasciandomi così libero
di percorrere gli sviluppi musicali che più
assecondino le tendenze insite nelle figure
iniziali, una volta che le "conosco"
nella concretezza della loro manifestazione.
Quanto al resto della tua domanda ammetto
di avere una certa difficoltà a stabilire
una netta separazione tra le idee musicali
e le tecniche che daranno loro corpo. Se
le idee musicali non sono i "temi"
e le tecniche gli "sviluppi" (se
invece lo fossero la tua tesi calzerebbe
a pennello per un compositore come Beethoven
o come Brahms, anche se a Bach andrebbe già
un po' stretta), ma se non lo sono, allora
mi domando se sia possibile stabilire con
esattezza dove finisce il dominio dell'idea
e dove inizia quello della tecnica, essendo
la relazione così stretta, così
frequenti i rimandi tra loro. Mi riferisco
a una concezione più vasta del concetto
di idea musicale, coincidente più
con un gesto, immaginato nel suo farsi suono
e realizzarsi in figure musicali e recante
con sé già l'idea di un processo
formale e compositivo, dunque già
proiettato verso la scrittura.
D. Progetti
artistici per il futuro?
MC. Sono appena tornato
dalla Svezia dove, con Edison Studio, abbiamo
eseguito dal vivo le musiche elettroacustiche
composte per un film muto del '13, "Gli
ultimi giorni di Pompei" ed ora sono
in partenza per la Biennale di Venezia, per
la prima della mia Sonata per pianoforte
che verrà eseguita da Mauro Castellano
il 28 settembre. Ho un lavoro in corso, una
composizione per un percussionista persiano
che verrà eseguita in novembre a Roma
e, tra i progetti, il proseguimento della
collaborazione iniziata due anni fa con l'attrice
Sonia Bergamasco e il poeta Pasquale Panella,
un'opera per bambini, un altro lavoro elettroacustico...
TORNA
SU
"Dalla
scrittura al teatro"
Intervista
a Mauro Cardi di Alessandro Mastropietro
(dal programma di sala del concerto dell'11.11.2001,
nell'ambito della 55a Stagione della Società
Aquilana dei Concerti "B.Barattelli",
ciclo "Ri-raccontare Verdi")
Mastropietro:
La traiettoria compositiva di Mauro Cardi
rende l'autore in questione, a mio avviso,
sensibilissimo al confronto con la scrittura
se poi essa è quella magistrale, quasi
"originaria" - per dirla con Derrida
- dell'Otello, nel senso che essa vale tutta
intera ad articolare suono e drammaturgia,
penso che si tratti qui quasi di una sfida
Ti chiedo anzitutto se quest'ultima, magari,
non sia una parola grossa, e forse può
essere ridimensionata con il concetto di
gioco che, pure, Ti è ugualmente vicino.
Cardi: Diciamo pure che come compositore
la scrittura, con le sue problematiche e
la sua fascinazione fatale, mi ha ossessionato,
almeno fino a pochi anni fa, orientando la
mia "ricerca" in modo quasi maniacale.
Negli ultimi tempi, sotto spinte diverse,
tra le quali il ruolo decisivo giocato dalla
"scoperta" degli orizzonti timbrici
e di pensiero aperti dalle nuove tecnologie,
il campo dell'indagine si è notevolmente
allargato, teatro incluso. Venendo al "ri-raccontare
l'Otello" la sfida implicava la disponibilità
a ripensare Verdi (e Verdi-Boito attraverso
Sermonti) senza preconcetti, confrontandosi
con quello che l'Otello rappresenta nella
storia del teatro musicale (e nell'immaginario
collettivo). Quando la scrittura si cimenta
con materiali di provenienza storica può
produrre operazioni anche artificiose ed
intellettualistiche, ma quando si tocca il
teatro il gioco della scrittura deve misurarsi
con una tempistica che non ammette incertezze.
E il caso dell'Otello è quello di
un plot che combina con rara efficacia l'essenzialità
della vicenda con una tessitura finissima
M.: A proposito di teatro: è
vero che le tue esperienze di teatro musicale
non sono numerose, ma sicuramente lo sono
quelle di un teatro dell'ascolto (i radiodrammi)
e quelle, riprendendo una definizione di
Donatoni, di un teatro del comporre, che
nelle tue ultime cose mi sembra si faccia
veramente vieppiù drammatico, incisivo
Ciò posto, come hai regolato, nello
specifico, il rapporto col preesistente verdiano
e col testo di Sermonti? L'hai piegato verso,
appunto, una tua nuova drammaturgia
?
C.: Come accadeva in passato a quei
compositori, penso a Monteverdi, certo non
a Verdi, che solo occasionalmente e neanche
troppo spesso si dedicavano al teatro, queste
occasioni rappresentano generalmente una
sorta di "summa" delle ricerche
portate avanti altrove, in contesti più
raccolti; in questa stessa situazione mi
sono trovato anch'io: ripensare, sfruttandone
i risultati migliori, a tanti lavori cameristici
prodotti negli ultimi anni indirizzando la
scrittura verso una teatralità lì
sotterranea ma fortemente presente, qui più
esplicita, pur nell'ambito di una forma,
quella del melologo, che rimane teatrale
sui generis. Troppo nota la trama dell'Otello
perché Sermonti si soffermi più
di tanto nel riraccontarla; piuttosto analizza
le tre figure chiave dell'opera, alla ricerca
di indizi che portino ad interpretazioni
inedite. Il testo, come la musica, scorrazza
così lungo l'opera, percorrendola
in lungo e in largo alla ricerca di temi,
psicologie, retroscena, antecedenti, sovrapponendosi
spesso in questi percorsi, ma producendo
anche stimolanti collisioni. La gran parte
dei temi verdiani è citata nel mio
lavoro: alcuni di questi temi appaiono entro
le trame di un discorso musicale a cui forniscono
materiale e da cui ricevono in cambio "coperture",
altri invece irrompono con la risolutezza
icastica di quei personaggi che non ammettono
censure o chiose (e qui mi riferisco al Finale,
dove sono presenti due tra i più celebri
temi dell'opera: E tu m'amavi per le mie
sventure e il più wagneriano Verdi
del "tema del bacio"); gli uni
e gli altri vengono assorbiti in un discorso
musicale che rimane personale, non assumono
valenze linguistiche, aspirano semmai ad
una teatralizzazione del linguaggio. La parte
del corno, strumento che nel mio lavoro assume
un ruolo protagonistico nella punteggiatura
formale dell'opera, esemplifica invece un
altro tipo di operazione: una ricerca calata
all'interno della scrittura di Verdi, tra
le pieghe della partitura - nella "pancia"
dell'orchestra, verrebbe da dire - di quegli
elementi oscuri eppure fortemente costitutivi
di uno stile, di quelle cellule che, una
volta estratte, serviranno a ricostruire
nuovi organismi, autonomi e di senso diverso,
seppur geneticamente prossimi ai loro antecedenti.
TORNA
SU
"Compositori
italiani d'oggi"
Intervista di Riccardo Piacentini
Rassegna Musicale Curci - Anno L n.3 - settembre 1997
Piacentini:
Quali sono stati i principali insegnanti
della tua formazione di studio, accademica
e non?
Cardi: Donatoni, più indirettamente,
Petrassi, per brevi ma intensi episodi, Ferneyhough.
P.: Quali compositori rappresentano
per te un costante punto di riferimento,
positivo o negativo che sia? Accenna ai tuoi
amori e alle tue idiosincrasie,
C.: Per quanto riguarda i punti di
riferimento non posso che citare alcuni dei
"classici":
Ligeti, Boulez, Maderna, Berio, Donatoni,
Ferneyhough, Sciarrino. Citerei anche Crumb
e, tra le ultime generazioni, Grisey, e fenomeni
interessanti come Goebbels. Le mie idiosincrasie
per i tutti neo-qualcosa, neo-spirituali
compresi, per le varie categorie del post-moderno,
per i minimalisti (Feldman e Reich esclusi).
P.: Quali le tue composizioni più
significative? Titolo, organico, anno di
composizione, committenza, luogo e data della
prima esecuzione.
C.: "In Corde", per orchestra
(1983-85); "Effetto Notte", per
otto esecutori (1989); "Calendari Indiani",
per voce femminile e dieci esecutori (1990);
"Nessuna coincidenza", azione scenico-musicale
in un atto per 2 soprani, tenore/recitante,
attore, ensemble, elettronica (1995); "Manao
Tupapau",
P.: C'è un motivo ideologico
delle scelte di cui sopra? In altri termini,
da che parte stai?
C.: Certamente, ma non solo. Anche
poetico, intellettuale e, perché no,
edonistico.
Riguardo la parte da cui starei... con una
battuta direi, citando Petrassi, che sto
dalla parte di quelli che sanno ancora dare
"un senso di necessità"
al gesto compositivo. Sto dalla parte della
musica che sa ancora immaginare e ricercare,
dentro e fuori di sé, qualcosa di
nuovo e quindi di comunicativo. I due termini
"ricerca" e "comunicazione",
mi sembrano assolutamente conciliabili, naturalmente
conciliabili. L'antitesi - ricerca versus
comunicazione - è un falso, sbandierato
per questioni di comodo. Storicamente le
espressioni artistiche che hanno comunicato
in maniera più forte sono sempre state
quelle con un maggior spessore di ricerca
le cui scoperte, linguistiche prima che tecniche,
hanno poi inciso fortemente sulla storia
(anche se so bene che non sempre è
stato vero il contrario, non sempre la ricerca
è arrivata a comunicare, qualche volta
anzi ha preferito votarsi ad una splendida
solitudine).
Non credo comunque alla ricerca-di-comunicazione
tout court che arriva a giustificare scelte
di semplificazione in nome della comunicazione,
in nome di una presunta analisi dei "gusti
del pubblico". In questi casi il passo
verso la mistificazione è assai breve.
Ripensate (senza disconoscerle) le scelte
dolorose (e a volte punitive) operate negli
anni '60 e '70, capaci di guardare senza
preconcetti a tutto il nuovo nel frattempo
occorso, credo che abbiamo ora a disposizione
un bagaglio sterminato con cui poterci esprimere
liberamente e realmente comunicare.
Insomma sto dalla parte di quelli che sanno
ancora guardarsi intorno, con curiosità:
nel tempo (analizzando la storia e i suoi
processi), come nello spazio (riconoscendo
la portata di civiltà musicali che
ignoravamo), osservando le altre culture,
musicali e non, come le altre discipline,
la scienza innanzitutto e le sue ricadute
tecnologiche che stanno rivoluzionando il
nostro modo stesso di comunicare fornendoci,
allo stesso tempo, strumenti completamente
nuovi. Non penso certo ad un compositore-scienziato,
ma ad un musicista che sappia piegare, a
fini espressivi, i nuovi strumenti che le
altre musiche, le altre civiltà e
le altre discipline gli propongono.
P.: Quali i tuoi rapporti con l'editoria
musicale?
C.: Ottimi, dal punto di vista umano.
Dal punto di vista della promozione invece
(l'unico che ormai abbia realmente un senso,
visto che per il resto del lavoro che una
volta veniva svolto dall'editore: stampa,
materiali d'orchestra, spedizioni, registrazioni...
sono del tutto indipendente, come la maggior
parte dei compositori della mia generazione
e successive) invece mi dichiaro, anche qui
credo come tutti, non soddisfatto. Se l'editoria
musicale non saprà attrezzarsi presto
vedo scenari futuri del tutto inediti, da
alcuni già sperimentati con successo.
TORNA
SU
"Compositori
oggi/Incontro con Mauro Cardi: Metto a fuoco le emozioni"
di Marco Spada
l'Unità, Roma, 17.3.1990
Una
cosa è certa: Mauro Cardi non ama
le cose scontate. Nel suo ultimo pezzo per
orchestra, Effetto notte, eseguito
a Melbourne in Australia, ha immaginato il
trucco, dei primordi del cinema (ricordate
il film di Truffaut?) col quale si filmava
di giorno con un filtro blu, e stampando
la pellicola si aveva una sorta di negativo,
con effetto notturno. Tradotto in suoni,
il "negativo" è il risultato
di una sottrazione di materiale, cosicché
quello che resta (grumi di flauto, marimba.
campane, gong) è come se galleggiasse
su un pieno che non c'è più,
asportato, cancellato. Un gioco intellettuale
che si confà all'autore, riflessivo,
ponderante, con attitudini scientifiche ("mi
ha sempre affascinato la tavola dei numeri
"casuali", perché tali non
sono"), ma dotato al pari di ironia
sottile, si direbbe criptica.
Cardi, classe 1955, è un altro figlio
della scuola romana e di Franco Donatoni.
cui riconosce la "capacità straordinaria
di svilupparti la fantasia su una base logica".
Finiti gli studi anche lui, come tanti altri,
ha voluto capire di più ed è
andato all'estero. In Olanda, dove ha vinto
il "Gaudeamus Preize" nell'84 con
Les Masques. E, naturalmente, a Darmstadt:
"I corsi veri e propri non esistono
più; tutto si svolge in un vorticoso
giro di conferenze e seminari, dove hai appena
il tempo di far sentire un pezzo e tentarne
una spiegazione. Se non per i "ferri
del mestiere", è stata comunque
una grande esperienza umana. Una sorta di
prova generale della carriera: devi corteggiare
i musicisti perché ti eseguano e gli
editori perché si accorgano di te.
Oggi la promozione si deve fare in prima
persona, è questo costa energie se
non sei tagliato per passare la vita in salotto".
Un po' di pudore non guasta nell'era del
presenzia1ismo; ma, accennata, traspare una
sfumatura d'orgoglio, come a dire "il
tempo giudicherà". "Ma,
per carità, senza i soliti plagnistei,
visto che il nostro mercato non può
che essere ristretto!".
Ma il pudore non è solo un fatto caratteriale,
si tramuta in un principio estetico, nella
reticenza a confessarsi: "Non credo
sia interessante far sapere da dove muova
il mio immaginario pre-musicale, perché
la verifica è nell'ascolto. Preferisco
conoscere dalle reazioni degli altri aspetti
di me stesso che non avevo contemplato, piuttosto
che sbandierare di aver pensato in un pezzo
alla circolazione del sangue o al movimento
degli astri". Non c'è dubbio
allore che nello schieramento frontale dei
compositori, Cardi si netta sulla sponda
degli strutturali, degli oggettivi, dei supremi
diffidenti sui "contenuti" della
musica E la compagnia non è male;
Bach, Rossini, Stravinsky... Quanto ai modelli
più vicini: "Petrassi, Ligeti,
e un'attrazione intellettuale per Stockhausen
e Boulez".
E la voglia di Romanticismo, il bisogno di
comunicare?: "Se per Romanticismo si
intende l'emotività esibita, il gesto
clamoroso che fa saltare sulle sedie, no
grazie. Se si intende un'espressività
che attinge ad esiti metafisici allora sono
un Romantico". Va da sé che il
teatro musicale, col suo armamentario di
"impurità", non solletica
la sua fantasia; piuttosto il balletto, forma
d'arte sintetica, o le formazioni cameristiche
("scriverei sempre quartetti d'archi").
Tanta chiarezza di idee ci fa arditi per
chiedere il suggello di una definizione:
"La composizione è la graduale
messa a fuoco di immagini pre-musicali, "raffreddate"
poco a poco; qualcosa in cui, dopo il travaglio
dell'elaborazione, traspaia ancora il fuoco
sotterraneo che l'ha generata". Logico
no?
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